«Ammassati nel rifugio sotto le bombe, tra lacrime e preghiere»

Ultimo Collection day organizzato dal GdB: i racconti di chi ha vissuto gli anni della guerra
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«Il primo bombardamento bresciano, quello del 14 febbraio 1944, ci fece saltare l’estemporanea sui verbi a scuola. Allora frequentavo la seconda media ed ero ospite di mio zio in città, perché a Lumezzane, dove ero nata, le medie non c’erano». Ricorda tutto nei dettagli e con lucidità Dolores Bordoli, classe 1932, tra i partecipanti al quinto e ultimo Collection day del GdB.

«Il secondo giorno di guerra, l’11 giugno 1940, ce l’ho ben impresso nella mente - racconta -. Era circa l’una del pomeriggio quando suonò il primo allarme bombardamento, fino ad allora l’unico in Italia. Visto che con gli zii abitavo in piazza Rovetta, il rifugio più vicino sarebbe stato quello della Loggia, ma mio zio non voleva andarci, diceva che avremmo fatto la morte dei topolini annegati, per la presenza del fiume sotterraneo Bova. A Pasqua del ’43 andai per la prima volta in un rifugio, quello della galleria. Era stretto e si stava in piedi. Gli adulti piangevano o pregavano, noi bambini speravamo che l’allarme cessasse dopo l’una di notte, così avremmo saltato un’ora di scuola l’indomani».

L’esperienza più traumatizzante per Dolores non fu legata a un bombardamento: «Sempre nel ’43 - ricorda - una mattina la zia, svegliandomi come al solito alle sei per ripassare la lezione, mi disse che in piazza c’era molta gente. "Forse daranno qualcosa senza tessera", ipotizzò. Io guardai dalla finestra e vidi un uomo dissanguato, con il mantello aperto e le ciabatte scivolate dai piedi. Gli avevano sparato durante una rappresaglia nella notte». Dolores ricorda anhe un altro episodio: «Mio padre aveva diversi contatti con i partigiani. Una sera, a Lumezzane, insieme a un suo amico si era fermato all’osteria "della Benedetta" e aveva cenato con due soldati tedeschi. I due posavano sempre fucili e mitragliatrici su una cassapanca e in quell’occasione mio padre e il suo amico misero i loro cappotti sopra le armi. Grazie alla complicità dell’oste, che continuò a versare da bere ai tedeschi, papà e compare si portarono via i fucili e e li diedero ai partigiani».

Il vicino di casa. Il ricordo di Massimo Claudio Piergentili si lega a una vecchia pala incrostata. «Mio padre Ferdinando, allora quindicenne, abitava in via Duca d’Aosta e aveva un vicino di casa suo coetaneo, Achille Sorlini. Durante il bombardamento del 2 marzo 1945, che polverizzò l’allora chiesa di Sant’Afra, papà corse verso un cratere a cielo aperto, appositamente creato per nascondere i civili al suo interno. Mia nonna gli impedì però di entrare, gesto che si rivelò provvidenziale, dato che un’esplosione avvenuta nelle vicinanze poco dopo sollevò una massa di terra tale da ricoprire il cratere e le persone al suo interno. Vedendo la scena, l’amico Sorlini corse a prendere una pala per liberare gli intrappolati, ma mentre scavava fu ucciso da uno spezzone proveniente da una nuova esplosione. Da allora mio padre custodisce quell’attrezzo in sua memoria».

Persone e ricordi si susseguono a ritmo incalzante. Ersilla Gaggiotti, per esempio, racconta dei dodici morti durante il bombardamento sui Ronchi, il 2 marzo 1945. Franco Molinari abitava invece in via Disciplina, e la sua casa fu bombardata 13 luglio 1944. «Il rumore - ricorda - era come quello di un carro di sabbia che scendeva. Scappammo appena in tempo, prima che crollasse tutto, e ci rifugiammo a casa Moro. Per passare - dice commosso - calpestavamo i morti».

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