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«Noi come carne da macello: mai isolata nessuna ospite»

La tragica testimonianza dall'Istituto Cremonesini di Pontevico dove in un mese sono deceduti 22 ospiti
A Pontevico l'istituto Cremonesini - Foto © www.giornaledibrescia.it
A Pontevico l'istituto Cremonesini - Foto © www.giornaledibrescia.it
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Le ha viste morire una dietro l’altra. «Ventidue ospiti. Un numero di decessi che nemmeno in un anno avremmo mai raggiunto». E invece all’Istituto Cremonesini di Pontevico è accaduto tutto in un mese.

«Si poteva evitare, ma siamo stati trattati come carne da macello. Noi operatori e le pazienti che ancora oggi non hanno le mascherine. Non le hanno mai avute e si continua così, nonostante le morti».

Duro lo sfogo di una delle 250 dipendenti della casa per donne con problemi psichiatrici, dove sulle 320 ospiti, 22 sono morte con i sintomi del Covid. «La Regione non ci ha concesso i tamponi - ha denunciato la presidenza della onlus -. Ma lì dentro non è stato fatto nulla per proteggere chi ci vive e chi ci lavora» racconta la dipendente che sceglie l’anonimato.

«Non voglio rischiare, ma è giusto raccontare la verità». La sua verità, di una donna provata, delusa, spaventata e arrabbiata. «Sono morte persone che facevano parte della nostra famiglia, le hanno lasciate morire. Per di più in mezzo alle altre ospiti, nelle stanze con altre donne. Non lo meritavano e a noi operatori ha fatto malissimo vederle morire così. Siamo un istituto psichiatrico - prosegue - ma diventiamo come una Rsa per tante che entrano giovani e restano qui fino alla morte. Che non doveva avvenire così».

Il racconto ripercorre il tempo dell’emergenza. «A febbraio come personale non avevamo le mascherine. Quando il Covid è arrivato per molto tempo continuava ad entrare ed uscire gente dalla struttura. Poi hanno deciso di limitare gli accessi ai parenti più stretti. Persone che però provenivano da Bergamo, Milano, Torino. E nel frattempo iniziavano ad ammalarsi anche dentro l’istituto». Il personale ad un certo punto si è ridotto anche del 75%. «Era inevitabile. Le mascherine ci sono state messe a disposizione solo nella prima settimana di marzo. Una a testa, che ho usato anche per dieci giorni di fila. Le tute sono arrivate ben dopo e indossavo la stessa per quattro giorni». Il personale si ferma, in tanti vanno in malattia, la struttura rischia il collasso, come ammesso dal presidente a metà marzo, e le ospiti si infettano sempre più.

L’istituto Cremonesini è diviso in sei reparti, tra Rsa e pazienti con problemi psichiatrici più evidenti. «Sono morte 12 donne in un solo reparto di 55. Vi sembra normale che non sia cambiato mai nulla? Che non siano state isolate le ospiti?».

La risposta è no, non pare una scelta logica. «Eppure un piano in caso di pandemia c’è. Era stato voluto dal vecchio direttore e prevedeva proprio la creazione di aree isolate. In quel piano erano stati individuati i reparti 3 e 5. Ma non è mai stato attuato e tra colleghi ci siamo sempre chiesti il perché. Ad ogni nostra domanda nessuno ha mai voluto rispondere» racconta la nostra fonte all’interno del Cremonesini.

«Impossibilitati ad effettuare i tamponi avremmo rischiato di isolare pazienti negativi e positivi insieme» è la tesi della proprietà. «Alcune pazienti risultate positive dopo il ricovero in ospedale sono rientrate in istituto e sono state riportate nelle loro stanze insieme alle altre ospiti. Erano malate, ma non interessava a nessuno - denuncia la dipendente che parlando con il nostro Giornale ha rotto il silenzio -. C’era stato imposto di non dire la verità alle nostre donne, di non raccontare loro quale fosse la situazione reale. Ma - è il pensiero di chi ha deciso di parlare - alcune delle ospiti sono lucide e si sono rese conto che le compagne di stanza si ammalavano e morivano. Chiedevano perché. E noi in silenzio».

 

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