Francesco Scalvini, morto 5 anni dopo la rapina: la ricostruzione
A 37 anni la sua vita si era di fatto fermata. Era la notte del 23 gennaio 2017. Ieri, poche settimane dopo aver compiuto 42 anni, il suo cuore ha smesso di battere per sempre. Dopo 5 lunghi anni. Francesco Scalvini è morto dopo 1.866 giorni trascorsi in un letto di ospedale. A Ghedi venne colpito con un cacciavite alla testa da una banda di ladri in fuga dall’abitazione del padre Giancarlo, in via Petrarca. Elettricista di professione, era stato chiamato dal genitore e dallo zio che avevano notato movimenti in casa.
Da tempo, dopo un lungo periodo alla Poliambulanza, era ricoverato in una struttura a Castiglione delle Stiviere con la moglie Cristina, psicologa, che non lo ha mai abbandonato e ha fatto di tutto per proteggere il marito e la sua famiglia. All’inizio tutti i parenti erano convinti che Francesco si sarebbe ripreso. Poi la fiammella della speranza si è lentamente affievolita, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Ieri la notizia della morte: proprio a Castiglione, alla Casa funeraria Antea è stata allestita la camera ardente. I funerali di Francesco Scalvini si terranno lunedì, 7 marzo, alle 15.30 nella parrocchiale di Ghedi.
L’aggressione

I ladri li aveva incrociati in strada. Il palo della banda aveva già acceso l’auto, il gruppo stava fuggendo e Francesco Scalvini aveva provato a fermare i malviventi. La reazione di uno di loro fu violentissima: prima prese a pugni il padre, all’epoca 73enne, della vittima e poi conficcò un cacciavite in testa all’allora 37enne che cadde a terra. Immagini rimaste impresse negli occhi e nella mente dei residenti in zona. «Non riesco a togliermi dalla mente l’immagine di Francesco a terra. Sono stato il primo a soccorrerlo» aveva raccontato il titolare di un’attività vicina all’abitazione, teatro della tragedia. Dal momento della brutale aggressione il buio ha avvolto la vita del bresciano. Scalvini non si è più ripreso nonostante alcuni disperati interventi chirurgici alla testa.
La testimonianza del padre
Il giorno dopo quella notte di sangue e violenza Giancarlo Scalvini, il padre di Francesco, tornò a casa dall’ospedale con un livido sotto l’occhio e un cerotto alla tempia. «Non li hanno ancora presi» furono le prime parole ai cronisti che lo aspettavano. Aveva 73 anni e il pensiero fisso era al figlio in condizioni disperate. Lui lo aveva chiamato per provare a fermare i ladri in fuga. Si sentiva responsabile. «Ho preso un po’ di botte mentre mio figlio è sempre in coma» raccontava il genitore prima di tornare su quanto accaduto la sera prima.
«Sono entrato in casa, ho sentito che i ladri erano in camera con un trapano che tentavano di aprire la cassaforte. Ho visto che la casa era ribaltata. Ho chiamato mio figlio e gli ho detto che c’era qualcuno». Francesco Scalvini, che abitava ad un isolato di distanza, arriva in soccorso del padre. «Ci siamo incrociati con i ladri. Mentre noi arrivavamo, loro scappavano. Ho tentato di avvicinarmi - disse Giancarlo in un’intervista - quando stavano già salendo in auto e hanno cominciato a picchiarci. Mi hanno preso a pugni, mentre non ho visto con cosa abbiano colpito mio figlio. Non penso usassero bastoni, ma sicuramente erano violenti. Dopo il colpo subìto continuavo a sanguinare, sono salito in casa per medicarmi e quando sono tornato in strada ho trovato mio figlio Francesco a terra».
Ai carabinieri aveva riferito tutto quello che ricordava. «Erano sicuramente in tre, robusti, ma non ricordo bene le facce anche se erano a volto scoperto. Non li ho sentiti parlare, ma posso dire che non erano italiani. Forse rumeni, forse slavi. Ho avuto paura. Non in casa - concluse - perché quando ho capito che c’erano i ladri sono andato via subito. In strada però è stato diverso: ci hanno massacrati».
Le indagini

Le indagini puntarono subito verso una banda di specialisti delle rapine in villa formata da pregiudicati dell’Europa dell’est. I carabinieri misero insieme elementi e riscontri individuando alcuni nomi che si ritenne potessero avere avuto un ruolo nella brutale aggressione. Ma non furono ritenuti abbastanza solidi e non si arrivò mai al processo. Il fascicolo venne archiviato. C’è tutta l’amarezza per un crimine efferato rimasto, per ora, senza un colpevole nelle parole di chi all’epoca si era occupato degli accertamenti. Il primo dato che emerse fu la totale mancanza di immagini dalle telecamere di sorveglianza che resero in un primo tempo impossibile individuare marca e modello preciso della vettura dei ladri e la direzione in cui era fuggita. Gli accertamenti scientifici sul posto misero nelle mani dei carabinieri del Reparto Operativo di Brescia diversi indizi ma nessuna prova concreta. Il fascicolo era dunque stato archiviato.
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