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Base Nato a Ghedi, le bombe atomiche e i segreti Usa

A Ghedi sono custodite una ventina di testate, ma gli Usa innalzano la segretezza sull’arsenale nucleare nelle basi
TESTATE NUCLEARI A GHEDI, SALE LA SEGRETEZZA
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C’è chi lo chiama il segreto di Pulcinella, ma visto che si parla di bombe atomiche un po’ di chiarezza in più non guasterebbe. Quante sono le testate nucleari custodite a Ghedi? In che condizioni di sicurezza avviene lo stoccaggio? Domande sulle quali è sempre stato impossibile avere chiarimenti ufficiali e che ora sembrano destinate a rimanere definitivamente senza risposta.

Il Governo degli Stati Uniti ha innalzato il livello di segretezza rispetto alle informazioni sulle ispezioni agli arsenali atomici custoditi nelle basi dentro e fuori il paese. Si tratta di dati che concernono tra le altre cose la capacità di conservare, assemblare, mettere in sicurezza, testare e utilizzare le armi atomiche. Una pagella, per dirla in modo semplice, sull’affidabilità dei depositi nelle basi, utile anche per chi governa e chi vive nei territori vicini alle basi. Informazioni diventate ormai «confidenziali», di fatto inaccessibili.

 

 

La notizia è stata divulgata dalla Federation of American Scientists ed è rimbalzata anche in Italia, ma nel nostro paese già adesso non ci sono indicazioni ufficiali sull’arsenale statunitense conservato a Ghedi e Aviano.

Per quanto riguarda l’aerobase Nato bresciana lo scienziato Hans Kristensen, della F.A.S., stima in un'intervista al manifesto la presenza di una ventina di testate. Ordigni di cui si parla anche in un dossier dell’Istituto affari istituzionali depositato in Senato dieci anni fa. Il segreto di Pulcinella diventa ancora più segreto, insomma, ma non senza conseguenze. Perché di fatto non esiste e non potrà esistere un protocollo specifico per le zone attorno alla base di Ghedi in caso di rischio per la popolazione civile. Lo denuncia Vito Crimi, senatore del M5S entrato lo scorso anno nella base senza però accedere alle zone in cui sono conservate le bombe atomiche. Potenziale pericolo.

 

 

«Non ci hanno nemmeno fatti avvicinare - racconta il parlamentare  -, di fatto è un pezzo di territorio italiano ceduto agli Stati Uniti. La cosa grave è che i protocolli di sicurezza non potrebbero essere condivisi con la popolazione perché significherebbe ammettere la presenza di un rischio nucleare».

Eventuali criticità che mettano in pericolo i cittadini verrebbero gestite dalla Prefettura, con i protocolli generali previsti in caso di emergenze legate al rischio nucleare, biologico, chimico o radioattivo, Nbcr, oppure in caso di terrorismo, ma non ci sono linee guida specifiche relative a Ghedi.

A livello istituzionale, le informazioni non circolano. «Noi collaboriamo con la base Nato per quanto riguarda le questioni di nostra competenza - dice il presidente della Provincia Pier Luigi Mottinelli -, come i trasporti e la viabilità». Di sicurezza, però, non se ne è mai parlato.

 

 

Lo stesso discorso vale per le amministrazioni locali direttamente coinvolte, a partire da Ghedi, un paese di oltre 18mila abitanti che vive fianco a fianco a una base che è un piccolo mondo a parte. «Non ci siamo mai posti il problema», dice il sindaco Lorenzo Borzi quando si parla di protocolli per la gestione della sicurezza attorno alla base Nato. Borzi parla di una convivenza diventata abituale con le attività militari, «non ci accorgiamo nemmeno più degli aerei in volo», dice, e rispetto alle eventuali emergenze si affida alle attività svolte a livello ministeriale. 
«La base ha un protocollo per la gestione di tutte le diverse situazioni e penso che il Ministero della difesa, che è l’organo competente, abbia fatto il suo lavoro».

Anche per i Comuni vicini vale lo stesso discorso: informazioni non ce ne sono e domande non se ne fanno. 
«Per noi la base è un bollino bianco nella mappa - dice il sindaco di Castenedolo, Gianbattista Groli -. Non ci sono mai state date indicazioni per quanto riguarda la sicurezza, credo che faccia parte del segreto militare». 

 

 

Più in generale, la presenza delle testate B61, che in futuro verranno sostituite dalle nuove B61-12 (gli Usa prevedono di costruirne 480 dal 2020 spendendo tra gli 8 e i 10 miliardi di dollari), chiama in causa anche il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Gli Stati Uniti non possono fornire testate nucleari ad altri paesi, ma la questione è stata in parte liquidata richiamando gli accordi di «nuclear sharing», con cui gli Usa mantengono il controllo delle atomiche in tempo di pace, anche se sono custodite materialmente all’estero.

Non solo, dal punto di vista giuridico, si legge nel dossier «Le basi americane in Italia - i problemi aperti» dell’Istituto Affari Internazionali, il problema «è stato rimediato con il sistema della doppia chiave». Le armi sono in possesso degli Stati Uniti, ma il loro utilizzo è consentito «solo dopo l’autorizzazione dello stato territoriale, cioè l’Italia». Una formalità che consente di dire che «l’Italia non esercita alcun controllo sulle testate nucleari Usa e quindi la loro presenza non è incompatibile con Tnp». Ma come funziona la doppia chiave? Ecco un’altra domanda a cui si può rispondere solo parzialmente e ufficiosamente: si tratta del «combinato consenso delle autorità italiane e statuinitensi» in caso di utilizzo. Oltre a questi elementi è difficile andare, in un campo in cui la segretezza è sempre stata massima e diventa ora, se possibile, ancora più elevata. Con buona pace di Pulcinella. 

 

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