Accadde oggi: 50 anni fa Bertoglio conquistò il Giro sullo Stelvio

Cinquant’anni sono trascorsi da quel memorabile 7 giugno 1975, quando fra due muraglie di neve sugli infiniti tornanti dello Stelvio si stagliò la figura esile ma eroica e colorata di rosa di Fausto Bertoglio, il primo bresciano nella storia a fregiarsi della vittoria del Giro d’Italia. Fausto come Coppi recitava uno striscione che campeggiava sui tornanti dell’ultima tappa di quel Giro concluso proprio in cima alla vetta ciclistica più alta d’Europa. A vincere quel Giro fu proprio Fausto da San Vigilio di Concesio, patria di papa Montini che in quegli anni guidava la Chiesa. A cinquanta anni da quell’avvenimento Bertoglio, oggi 76enne, ripercorre con la memoria quel giorno.
«La scalata fu una bella battaglia con lo spagnolo Francisco Galdos che alla partenza della tappa aveva solo 41’’ da me. Provò in tutti i modi a staccarmi ma io non mollai. Non conoscevo quella salita e fin dai primi tornanti pensavo che l’arrivo fosse più in alto, al rifugio che si vede dalla strada. Quando vidi il tratto transennato capii che era fatta. Lo capì anche Galdos che a quel punto mi chiese di lasciargli vincere la tappa, tanto io avrei vinto il Giro».
Che effetto fu vincere il Giro?
«È la più grande soddisfazione per un corridore italiano. E pensare che io quel Giro non dovevo vincerlo. Ero partito come gregario di Battaglin, nessuno pensava che avrei potuto vincere».
Poi che accadde?
«A metà Giro c’erano in programma due cronometro, una a Forte dei Marmi per specialisti l’altra con traguardo al Ciocco, una cronoscalata. La prima fu vinta da Battaglin che da scalatore indossò la maglia rosa. Per tutti era il favorito, invece il giorno seguente al Ciocco io vinsi, lui fu nono e gli strappai la maglia rosa. Ma per me la cosa finiva lì, alla prima occasione la maglia l’avrei ceduta. Invece all’indomani Battaglin andò in crisi e cadde nel tranello di Gb Baronchelli finendo fuori classifica».
Dopo quel Giro vinto la sua carriera svoltò?
«Insomma. Corsi ancora per la Jolly Ceramica, l’anno seguente fui terzo al Giro, l’ultimo vinto da Gimondi e conclusi nono il Tour de France, ma nel ’77 caddi al Giro e mi ritirai. Ricevetti poi la notizia che la Jolly Ceramica (in squadra annoverava allora i bresciani Alessio Antonini, Pierino Gavazzi e Giuseppe Martinelli) chiudeva i battenti e mi ritrovai senza squadra. Con Primo Franchini si riuscì ad allestire alla belle meglio nel 1978 una formazione, la Selle Royal che vide il debutto nel ciclismo professionistico del marchio bresciano Inoxpran».
Rimpianti?
«Almeno due. Il primo è non aver vinto il Giro con la Brooklyn di Cribiori, lo squadrone nel quale passai professionista. Ma in una squadra che aveva De Vlaeminck e Sercu come capitani, nonchè altri buoni corridori e garantiva almeno 20 vittorie l’anno non avevo spazio. L’altro rimpianto è il mancato progetto della squadra tutta bresciana».
Quale progetto?
«Nel 1978, Angelo Prandelli, patron dell’Inoxpran di Lumezzane, voleva creare una squadra di soli corridori bresciani con direttore sportivo Michele Dancelli. All’epoca eravamo in 15 o 16 professionisti di Brescia. E io sarei stato capitano per le corse a tappe. Invece Angelo morì in un incidente stradale e la famiglia proseguì l’impegno con altre idee. E la storia prese un’altra piega. Io mi ritrovai alla San Giacomo, squadra piccola e con pochi soldi. Avevo già moglie (Giusy) e figli (Andrea che oggi segue il negozio di Concesio e Paolo ex professionista anche lui) e decisi di ritirarmi».
Ma non fu l’ultimo anno.
«A febbraio 1980 ricevetti la telefonata di Moser che mi propose un buon contratto per fargli da gregario al Giro che affrontava lo Stelvio (per questo pensò a me!) ancora una volta. Mi preparai in fretta e furia andai al Giro, poi Moser si ritirò e non finì bene».
A tanti anni di distanza viene da chiederle: il ciclismo è ancora lo stesso?
«No, molte cose sono cambiate. Le bici sono differenti, ma materiali a parte, il peso è tutto sommato simile, la vera rivoluzione sta nell’alimentazione. Noi mangiavamo tutto ciò che ci capitava e anche di più e poi dovevamo fare anche 180 chilometri di allenamento per smaltire, oggi le diete sono personalizzate e i ragazzi si allenano meno ma con più intensità».
Va ancora in bici?
«Certo, i miei 60-80 km li faccio ancora volentieri, naturalmente al mio passo. Ho un sogno, per l’anniversario della vittoria del Giro quest’anno vorrei scalare lo Stelvio. Vedremo se ci saranno le condizioni».
Sarà più facile con una e-bike?
«No, vede, io sono ancora per la bici muscolare, quando mi renderò conto che non ce la farò, allora forse userò l’elettrica. Se poi non dovessi più avere l’equilibrio, allora prenderò il mio bastone, andrò a camminare e farò solo il nonno».
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