La lingua italiana che cambia

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Mi viene da ridere amaramente quando leggo sui giornali che alcune Amministrazioni comunali vorrebbero mantenere in dialetto bresciano i nomi di luoghi.
Ma come, mi dico, non sanno che fra trenta o quaranta anni scomparirà la lingua italiana? Infatti siamo invasi sempre di più da vocaboli inglesi e di questo do la colpa principale alla stampa: sembra che oggi ci si debba vergognare di usare il vocabolo italiano. A questo proposito, sono stato costretto, alla mia tenera età e data la memoria che mi abbandona, a comprare un quaderno, sul quale scrivo man mano il significato dei nomi inglesi, altrimenti non comprendo più gli articoli dei giornali: ma è possibile tutto ciò?


Ricordo da ragazzo, quando abitavo in una città del Sud, che vi era un unico negozio che aveva un titolo inglese e cioè «Old England»; alcuni amici, che studiavano l'inglese (allora era di moda il tedesco), dicevano che significava «Vecchia Inghilterra»; ma noi avevamo altri pensieri in testa! Il fratello di mio papà, che era professore di glottologia all'Università di Firenze, mi diceva che il vocabolo è il mezzo più potente perché un popolo forte e determinato sottometta quello più debole; ma è anche possibile opporsi.
Questo zio, a 70 anni, fu l'interprete principale del film «Umberto D.» di Vittorio De Sica, che incontrò a Roma un giorno in cui doveva essere ricevuto da De Gasperi per parlare, fra l'altro, di alcuni toponimi dell'Alto Adige.
Purtroppo, non mi resta che tornare al mio quaderno, cercando di ricordare che: asset, rating, default, spread, ecc. significano patrimonio, valutazione, insolvenza, divaricazione, ecc. Peccato!


Giorgio Battisti
Brescia


E come non essere d'accordo? Soprattutto dopo avere visto in che «veste» giunge al Giornale questa lettera: un foglio di protocollo a righe, scritto a mano con una grafia sicura, il carattere ampio, chiaro... Non vogliamo rubare il mestiere ai grafologi, ma leggiamo nei tratti, ancor prima che nelle parole, l'animo di chi sa che deve combattere, ma sa parimenti che la battaglia è perduta.
Così è, così sia: con l'evoluzione (?) della lingua non si possono incrociare le armi. Quel che si può fare è staccarsi dal gregge, provare qualche sortita fuori dal campo dell'insulsaggine. Dopodiché una resa onorevole è l'unica soluzione.
Intendiamoci, l'uso di parole straniere, di per sé, non ha niente di censurabile. Il linguaggio giuridico, quello filologico sono pieni di termini latini; quello filosofico di parole tedesche. Meglio, comunque, il termine originale all'«italianizzazione» di «baco» per «bug», meglio un'espressione straniera dell'orrendo francesismo «contattare», tanto per fare due esempi. E poi a qualcosa si può rinunciare: per esempio ai discorsi in «economese». Anche perché, scritti in italiano o in aramaico, sono sempre fregature. (g. a.)

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