Cultura

«Vengo dalla ginnastica, lavoro diversamente sul mio corpo»

Nicola Galli parla di «Deserto Digitale», lavoro che presenterà giovedì al Grande in prima nazionale
Al lavoro anche sui costumi. Nicola Galli, che punta su un particolare utilizzo di blu, giallo e rosso © www.giornaledibrescia.it
Al lavoro anche sui costumi. Nicola Galli, che punta su un particolare utilizzo di blu, giallo e rosso © www.giornaledibrescia.it
AA

Dopo la storia della danza moderna con il tour celebrativo dedicato a Paul Taylor, il Teatro Grande di Brescia torna a proporre nuovi volti della coreografia italiana: giovedì prossimo, 14 marzo, alle 20.30 (con posto unico a 15 euro per entrambi gli spettacoli, biglietti disponibili su teatrogrande.it) la Sala Palcoscenico Borsoni e il Salone delle Scenografie ospiteranno il «Duetto in ascolto» di Camilla Monga e Zeno Baldi e la prima nazionale dell’ultimo lavoro di Nicola Galli, giovane artista che presenterà al pubblico «Deserto Digitale». L’abbiamo intervistato.

Nicola, su cosa si fonda la sua ricerca coreografica? La mia formazione è eterogenea, non nasco come danzatore e non ho un percorso accademico. Vengo dalla ginnastica. Da coreografo lavoro quindi diversamente sul mio corpo, decidendo in autonomia cosa studiare e cosa apprendere. La ginnastica mi ha dato una preparazione fisica forte e una conoscenza approfondita del corpo. Affrontare la danza è stato quindi semplice per me, e la declino in diversi formati, dalla danza alla installazione, dalla grafica alla performing art.

Ha lavorato anche con il CollettivO CineticO e con il Junior Balletto di Toscana, studiando hip hop e danza rinascimentale: un percorso molto eclettico... «Danza» in effetti è una parola che mi sta un po’ stretta. Il corpo è il mio strumento primo per investigare le diverse ricerche. Quella con il CollettivO CineticO è stata l’esperienza più importante per me. Del resto anche Francesca Pennini, del CollettivO, è ginnasta… E infatti grazie a lei mi sono riconosciuto nella possibilità di non essere solo danzatore accademico, trovando uno spazio diverso nel panorama della danza. Il CollettivO ha fatto di questo il suo marchio di fabbrica.

Questo lavoro si fonda sulla ricerca musicale di Edgard Varèse: com’è nato? Ho incontrato questo compositore nel 2015 ascoltando alcuni suoi lavori più noti e gli ho dedicato 3 anni di ricerca. Il suo è un magma sonoro che ti investe e ad un primo ascolto è difficile sintetizzare questo panorama vivace, ricco e multiforme. Lo spettacolo indaga il senso rivoluzionario di Varèse nei confronti del suono e dei rumori.

Ha lavorato personalmente anche sui costumi: ce ne parla? C’è un particolare utilizzo del blu associato al giallo e rosso, e i costumi si adattano alle geometrie del corpo. Sono molto essenziali: ricercano linea e cerchio, che ci sono anche nella coreografia e nella scenografia.

Tutto convive. In scena i danzatori saranno tre: quale sarà il loro ruolo? Non saranno abitanti, ma entità che attraversano lo spazio con presenze differenti: io e Paolo Soloperto siamo due figure simbiotiche, uno lo specchio dell’altro, con forte relazione corporea e con la musica, mentre Alessandra Fabbri si inserisce nel doppio, come la punta del triangolo. Lei è un Caronte, un accompagnatore degli spettatori. Il suo ruolo è dare la chiave di lettura al pubblico, per introdurlo al panorama di Varèse. Un sostegno alla visione, non alla comprensione.

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia