Cultura

Se «gnari» e «s-cècc» parlano di noi

Mille modi di dire «ragazzo» e l'idea di un atlante
UN ATLANTE PER IL DIALETTO
AA

Le parole parlano di noi. Accenti e inflessioni raccontano di radici e di migrazioni, denunciano la nostra storia e la nostra geografia. A maggior ragione nel dialetto, lingua parlata che è - o che quanto meno è stata per secoli - una cosa viva sul territorio bresciano. E così, ad esempio, anche il modo in cui in dialetto diciamo ragazzo si rivela un efficace gps culturale, la bandierina piantata sulla fetta di provincia in cui siamo nati o cresciuti, una stratificazione che ci portiamo addosso.

Ragazzo, dunque. Fra i termini che a me vengono in mente ci sono sicuramente il diffusissimo e conosciutissimo gnaro (nel quale risuona il latino ignarus, cioè chi non sa, chi per la giovane età è inconsapevole, proprio così come in italiano infante indica chi non sa parlare) oppure la variante s-cèt o s-ciàt (con una radice linguistica che richiama la schiatta, la stirpe, la discendenza). Più bassaiolo quest’ultimo, più pedemontano il primo.

Risalendo la Valcamonica si incrocia matèl che vanta una storia lunga: risuona nella matalotta siciliana, si ritrova evidente nel matelot francese con cui si indica il ragazzo che fa il mozzo su una nave. Alle spalle c’è addirittura l’ombra del greco antico mataiològos (letteralmente colui che dice cose insensate, guardacaso proprio come l’infante e l’ignarus).

Insomma: come si dice, o come si diceva, ragazzo dalle vostre parti? Potrebbe essere curioso provare con il vostro contributo di lettori a disegnare insieme un piccolo atlante bresciano. Proviamoci. La mail c’è, usiamola. Dai gnari, sö ’nsèma.

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