Rubgy, 50 anni fa nel Sudafrica dell'apartheid: «Per me un'emozione enorme»

Sudafrica, 1973. Nel paese è in vigore l’apartheid, Nelson Mandela è in carcere da una decina di anni e il boicottaggio internazionale impedisce agli Springboks, la nazionale di rugby composta esclusivamente da «afrikaners» bianchi, di trovare avversari degni di questo nome.
A dicembre di quello stesso anno anche Brescia farà la sua parte contro la segregazione: dopo la presa di posizione del sindaco Bruno Boni contro l’ipotesi di ospitare al Rigamonti un match fra Italia e Sudafrica, gli Springboks dovranno rinunciare al tour per mancanza di città disposte a organizzare le partite. Il calendario, oltre a quello di Brescia, l’11 dicembre, prevedeva un match a Treviso, il 7 dello stesso mese.
Ma le cose andarono diversamente nell’estate del 1973, quando gli azzurri effettuarono una tournée di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario. Tra i protagonisti di quell’avventura ci fu Salvatore «Nembo» Bonetti, allora ventitreenne. «Avevo esordito in maglia azzurra, a novembre del 1972, ad Aosta, contro la Jugoslavia - racconta «Nembo» -. Qualche mese dopo, ricevetti la convocazione per un raduno della Nazionale a Tirrenia, in vista di non meglio precisati impegni futuri. Nessuno di noi sapeva che la federazione sudafricana per forzare l’accerchiamento internazionale aveva invitato l’Italia ad effettuare un tour laggiù. Il Coni tuttavia non aveva dato il benestare e il presidente Luzzi-Conti cercava una soluzione per aggirare il divieto formale».

La soluzione verrà trovata grazie a un paio di escamotage: l’Italia non si sarebbe presentata come tale, ma come «selezione italiana», con maglie verdi anziché azzurre. In più nel corso della tournée avrebbe disputato una partita con i Leopards, la selezione dei giocatori di colore, ai quali normalmente era vietato misurarsi con i bianchi. Un segnale politico che metteva il tour al riparo da polemiche.
«Per verificare il nostro livello e darci una mano nell’allestire la squadra in vista del tour – ricorda Bonetti - dal Sudafrica mandarono in Italia un allenatore, Amos Du Plooy, con il quale facemmo conoscenza a Ostia nel raduno in cui ci fu comunicato il programma della trasferta, tenuto segreto a tutti fino ad allora. Alcuni dovettero rinunciare per impegni di lavoro, altri perché studiavano, qualcuno si dove sposare. Per me, lumezzanese, che considerava il crociale di Sarezzo il confine del mondo, l’idea di andare in Sudafrica fu un motivo enorme di curiosità ed emozione. Avevo esordito nel Brescia a ottobre del 1971, campionato alla fine del quale eravamo retrocessi in serie B. Nell’estate del 1972 ero passato al Parma e, diciotto mesi dopo la mia prima partita in A, mi offrivano la possibilità di una trasferta in Sudafrica. Per me un doppio o triplo salto mortale».

Cosa sapevate di quel paese? «Degli Springboks che erano giocatori formidabili. Del resto poco o niente, finché prima di partire fummo invitati all’ambasciatore sudafricano in Italia che senza tanti giri di parole ci spiegò come ci saremmo dovuti comportare: zero rapporti con la gente di colore - ci avvertì - men che meno con le donne, perché in quel caso non ci sarebbe stata autorità in grado di tirarci fuori dai guai, o meglio dalla galera. Mettemmo piede nel paese e ci accorgemmo che non si scherzava. I neri quando ci vedevano cambiavano marciapiede, e se qualcuno di loro incrociava il nostro sguardo e noi sorridevamo, c’era subito chi ci ammoniva di non rivolgergli la parola».
In Sudafrica l’Italia disputò nove partite. L’unica vittoria fu quella contro i Leopards che l’anno successivo, a maggio del 1974, ricambiarono la visita, affrontando gli azzurri a Brescia. «Ma se avessimo ricominciato dal punto in cui chiudemmo la tournée, allenati come eravamo, con quello che avevamo imparato, ne avremmo vinta sicuramente qualcuna di più», dice Bonetti.
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