L’esordio di Izekor nel Sei Nazioni: «Non ditemi che era tutto un sogno»

Prima le lacrime, quando gli hanno annunciato che per l’infortunio di Iachizzi in panchina sarebbe andato lui. Poi la voglia di lasciare un segno: «Cavolo, è un occasione unica, o la va o la spacca…», ha confessato di aver pensato Alessandro Izekor quando i tecnici ieri all’Olimpico a un quarto d’ora dalla fine della sfida tra Italia e Inghilterra nel Sei Nazioni gli hanno detto che toccava a lui.
Le lacrime le aveva versate in albergo, racconta, ripensando alla strada percorsa e a quanto il rugby aveva significato per lui: le prime sgambate sul campo del Brescia, poi a Ospitaletto, a Calvisano, infine a Treviso. Ai sacrifici per andarsi ad allenare, in bicicletta, fino all’Invernici da via Chiusure. Qualche volta, quando lo superava la macchina di un compagno di squadra, si attaccava al finestrino e si faceva trainare. «Mi sono detto che ne era valsa la pensa, una strada lunga, e adesso spero che questo sia solo l’inizio, non mi posso fermare qui».
Una telefonata per dirlo a casa, agli amici più vicini, alla fidanzata. «Ho giocato contro Maro Itoje – sottolinea – un mio idolo quando ero ragazzino, ci siamo contesi la palla uno contro uno in touche. L’Olimpico pieno, la maglia dell’Italia, il Sei Nazioni, vi prego non svegliatemi, non ditemi che tutto era un sogno. Anche se per me è un sogno davvero, un sogno che si avvera».
Poi i doverosi ringraziamenti: «Devo ringraziare tutti quelli che mi hanno aiutato, tutti gli allenatori. Massimo Brunello che mi ha fatto esordire in prima squadra a Calvisano, Gianluca Guidi che con i suoi modi mi ha temprato, mi ha fatto crescere alla sua maniera… E poi Marco Bortolami al Benetton che quest’estate nella lunga preparazione estiva mi ha aiutato molto a curare i dettagli».
Di Izekor colpisce la fisicità prorompente, ma colpiscono anche i mezzi atletici non comuni. «La velocità me l’ha data madre natura – dice – ma il fisico l’ho costruito da me con tantissimo lavoro. Mi allenavo quando gli amici uscivano e andavano a divertirsi. Io in questo gioco ci credevo e al piccolo Alessandro di allora oggi direi: hai visto, facevi bene a impegnarti, adesso è davvero arrivato il tuo momento…».
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