Da Sergio a Davide: così la dinastia dei Nava continua ad andare in meta

Da Calvisano ad Alghero. Una meta alla formazione sarda, la prima dei gialloneri domenica al «Maria Pia», per chiudere un ciclo e aprirne, se possibile uno nuovo. In mezzo una storia di famiglia, con tanti risvolti ovali.
Davide Nava arrivò a Calvisano diciottenne nell’estate 2019. Dentro gli bruciava la fretta, quella che hanno i giovani. A casa aveva sentito parlare di rugby da quando era nella culla: papà Sergio in carriera ha disputato nel Rugby Brescia la bellezza di 25 stagioni.
L’avventura del giovane Davide nella Bassa però durò poco: qualche allenamento e poi una spalla che fa crack, stagione finita se ne riparlerà dodici mesi dopo. Trascorso un anno, il ragazzo scalpita, vuole essere messo alla prova. Ma quello della stagione 2020/2021 è ancora un Calvisano pieno di ambizioni, con Gianluca Guidi di nuovo in panchina, dopo i cinque anni di Massimo Brunello. Alla vigilia di Natale, Nava che non è stato provato in campo nemmeno per un minuto decide di andare a Lumezzane. Dove però il campionato non si gioca, bloccato dal Covid. «E così sono stato fermo un altro anno – riflette oggi il giocatore bresciano –. Con il senno di poi avrei dovuto essere meno impaziente, aspettare il mio turno, avere meno fretta».
Poi due anni a girovagare per l’Europa alla ricerca di una nuova occasione, prima a Nizza, con gli Espoirs, poi a Madrid con il Pozuelo, l’infortunio alla caviglia, la pubalgia. Fino al ritorno a Calvisano, la scorsa estate, l’esordio in prima squadra contro il Cus Torino e la meta domenica. Si è chiuso il ciclo? «Non lo so - dice - le cose succedono più che altro per caso. Domenica ad Alghero sono entrato al 34’, perché si è fatto male Michele Consoli, un’ala. Non pensavo toccasse a me sostituirlo, perché in panchina c’era un’ala di ruolo (Pierre, ndr). Mi sono fatto trovare pronto, speriamo a questo punto di avere qualche altra occasione».
Ieri e oggi
Sergio, il papà, il suo debutto lo festeggiò a maggio del 1978 contro il Parma, in prima linea con Paoletti e Abbiati, due nazionali. «Ma quel rugby non esiste più - dice oggi, a 64 anni suonati -. Noi giocavamo per il gusto di giocare, e ci trovavamo a dividere lo spogliatoio con campioni come Robin Williams, Clive Burgess, con All Blacks leggendari come Robin Brooke e Dylan Mika. Situazioni impensabili oggi per ragazzi come Davide».
Il figlio: «Non posso dire di essere stato obbligato a giocare a rugby, certo devo ammettere che al calcio non mi avrebbe portato nessuno, anche se mi piaceva e i miei amici insistevano perché andassi con loro». Il padre: «A Davide dico: studia, cerca una tua strada. A me il rugby ha dato tutto, amicizie, carattere, relazioni, io sono in debito con il pallone ovale. Ma oggi non è più così. Quelle possibilità non appartengono alle nuove generazioni».
E ancora Davide: «Rispetto a quattro anni fa sono un’altra persona. Allora volevo bruciare le tappe, oggi ho capito che non c’è un traguardo da raggiungere, ma piuttosto una strada da percorrere. Però non è venuta meno l’ambizione di fare le cose bene, con impegno. Allenarsi, andare in palestra la mattina prima delle lezioni all’Università (si dovrebbe laureare ad aprile in Economia, ndr), cercare di farsi trovare sempre pronti…Perché non c’è piacere nel fare le cose se non dando il massimo».
La prima meta non si scorda mai.
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