Paul Griffen: «Il rugby e la vita, le mie sfide»

Il rugby metafora della vita? Per qualcuno anche di più, la vita stessa. Sicuramente per Paul Griffen, il mediano venuto dagli antipodi, diventato la bandiera del Calvisano, un'icona dello sport e non solo. Per lui la vita si identifica con il rugby anche perché gli è toccato di dover affrontare sfide difficilissime pure fuori dal campo. Lo ha fatto, e lo sta facendo, con lo spirito e il coraggio del giocatore di rugby. Per molti è retorica, per Griffen è la realtà, la sua vita.
Paul Richard Griffen nasce, esattamente 38 anni fa, il 30 marzo 1975, a Dunedin nell'isola del Sud della Nuova Zelanda.
Quindi «Buon compleanno Paul!», quando hai iniziato a giocare a rugby?
«A tre anni, più o meno, come quasi tutti dalle mie parti».
E sognavi la maglia tutta nera?
«Come tutti, con mio padre ci si alzava di notte per vedere in tv gli All Blacks nei test match europei, li vedevo dal vivo, una volta mi feci fare l'autografo da John Kirwan».
Facevi altri sport?
«Giocavo anche a rugby a 13, e ero bravo a cricket: per 4 o 5 anni ho giocato nella squadra di cricket di Otago. Poi a 15 anni ci trasferimmo a Greymouth. Lì il cricket non c'era è andai avanti col rugby: il sabato giocavo a 15 e la domenica a 13».
Quando decidesti quale sarebbe stato il tuo sport?
«Nel 1993 morì mio padre e mi trovai nelle condizioni di dover guadagnare per aiutare la famiglia: un manager del Blaketown mi offrì di giocare a 15 e anche di lavorare e ottenere un diploma: accettai».
Fu una scelta azzeccata?
«Iniziò un periodo bellissimo: si giocava in terza divisione, si girava tutta la Nuova Zelanda. Mi è capitato di incontrare Carlos Spencer. E abbiamo vinto due campionati della West Coast. In quel periodo, avevo 19 anni, fui convocato nella selezione dei Maori del Sud. Da parte di mio padre sono maori e fu un'esperienza meravigliosa: la selezione del Centro ci battè, ma fu bellissimo giocare a 19 anni con giocatori stratosferici».
Ci furono altri importanti avvenimenti in quel periodo...
«La mia storia d'amore con Karla, che era iniziata da un paio di anni, diventò una cosa seria e ci trasferimmo a vivere insieme a Christchurch. Andai a giocare nel Linwood con un grande allenatore, l'ex capitano degli All Blacks Tane Norton».
Erano anni decisivi per la tua carriera...
Sì, ma iniziò un brutto periodo per me, bruttissimo. Mi ruppi i legamenti di un ginocchio e restai fermo per sette mesi. Rientrai per poco e di nuovo stop per il ginocchio. Passai al Canterbury, alla seconda squadra e mi stavo riprendendo bene: ero il secondo mediano di mischia dopo Justin Marshall. Ma mi ruppi una caviglia. L'ultimo incidente accadde in una amichevole con gli Highlanders: placcai il numero 8 Isotola Maka, un All Black, e mi risvegliai la mattina dopo in ospedale. Ma era un semplice trauma cranico».
Quando decidesti di andare via dalla Nuova Zelanda?
«Nel '99. Col mio amico Dean McKinnel che aveva giocato in Italia, nel Calvisano (ed è tuttora nello staff giallonero ndr) si pensava di andare negli Usa oppure in Italia. Decisi per l'Italia, mi sposai con Karla, ottenni un contratto con la Partenope di Napoli in serie B e partii. Pensavamo che sarebbe stata un'esperienza breve, il nostro viaggio di nozze in Italia. È diventata la luna di miele più lunga del mondo».
In Italia si sa che andò bene...
«Quell'anno ero giocatore-allenatore: la Partenope vinse il campionato e fu promossa in A2. Poi mi chiamò Craig Green che allenava il Calvisano. Venni qui con Karla per vedere: era la primavera del 2000, una bella giornata di sole, non c'era nebbia e neppure le mosche. Pensammo: "È proprio un bel posto", e così fu fatta».
Poi non ti sei più spostato...
«Calvisano è davvero un gran bel posto. Il primo anno andammo in finale e poi sono stato in campo in tutte le otto finali giocate dai gialloneri, tre vinte e cinque perse».
Arrivò la maglia azzurra...
«Nel 2004 fui convocato da Kirwan. Fu una sensazione molto particolare: si realizzava il sogno di giocare ai massimi livelli, ma era strano per l'età, avevo 29 anni, e perché solo allora iniziai a sentirmi italiano. Ricordo che ero in camera con un altro esordiente, Roland De Marigny, e la sera studiavamo l'inno di Mameli con tanto di cd, per non fare figuracce».
Poi hai collezionato 42 caps in azzurro e segnato una meta, una trasformazione, un drop e una punizione.
«Ma ho fatto tantissimi assist».
Più prolifico in giallonero dove hai giocato 287 partite, segnando 1064 punti. Ora è tempo di nuove sfide...
«Non so ancora quando smetterò di giocare, ho 38 anni, ma ho ancora voglia di andare ad allenarmi nel fango in pieno inverno. Sto seguendo l'iter per diventare allenatore, potrei restare a Calvisano... ma queste scelte dipenderanno anche dalla famiglia, da Karla e dovrà essere la scelta migliore anche per Jackson».
Perchè intanto la tua vita personale è cambiata...
Sì, nel 2004 nasce Jackson e nel 2008 Tyson, i miei due figli. Una favola che si avvera... e invece quando Jackson ha 3 anni, 3 anni e mezzo, ci accorgiamo che qualcosa non va. Si pensa a disturbi del linguaggio, problemi per la doppia lingua. Giriamo per ospedali fino a quando a Brescia ci dicono la diagnosi: Jackson è un bambino autistico».
Una ennesima terribile sfida...
«Sì, è difficile accettarlo. Ma poi reagisci e ti rendi conto che la situazione va affrontata con decisione, che devi diventare migliore per aiutare tuo figlio. Devi trovare chi ti può aiutare, devi imparare i meccanismi e gli strumenti giusti. Devi capire bene le differenze tra tuo figlio e gli altri bambini».
Adesso Jackson ha otto anni...
«Sì, va a scuola e ha fatto molti progressi. Siamo stati aiutati da molte persone, dalla dottoressa Carmen Clerici di Calvisano e dalle maestre della scuola di Castelletto di Leno che Jackson frequenta. Professioniste competenti e affettuose. Jackson è migliorato anche grazie al fratellino Tyson che quasi inconsapevolmente lo aiuta moltissimo. Quando vedi che fa un passo avanti, anche minimo, ti rendi conto che le mete, le vittorie, gli scudetti, il successo non contano nulla. Quella è la vera soddisfazione, per me e per Karla. Io credo di avere imparato in questi 4 anni più cose che nel resto della mia vita. E vado avanti, perché la vita... è tutta un match».
Alberto Pellegrini
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