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Ottavio Bianchi: «I miei 80 anni vissuti per il calcio, con il cuore tra Brescia e Napoli»

Oggi è il compleanno del tecnico bresciano che nel 1987 vinse uno scudetto con il Napoli
Ottavio Bianchi e Diego Maradona ai tempi d'oro del Napoli © www.giornaledibrescia.it
Ottavio Bianchi e Diego Maradona ai tempi d'oro del Napoli © www.giornaledibrescia.it
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Oggi Ottavio Bianchi compie 80 anni. Ne ha passati più di 50 nel mondo del calcio: è stato giocatore, allenatore, dirigente, persino presidente. E tutto è partito da Brescia, la sua città.

Il ricordo più dolce?

«Avevo 16 anni, ero nelle giovanili. Come premio una volta mi fecero allenare con la prima squadra. Ero così emozionato che davo del lei ai giocatori. Fra di loro c’era Benito Lorenzi, lo chiamavano “Veleno” tanto per capirci. Io gli feci un dribbling».

Sacrilegio...

«Se l’era fatto fare apposta. Si finse molto arrabbiato, disse che fuori me l’avrebbe fatta pagare. Ero terrorizzato, uscii dallo spogliatoio per ultimo, sperando se ne fosse andato. Macchè. Lorenzi, con altri due, mi aspettava a braccia strette e la faccia nera».

Penitenza?

«Nessuna, era tutto uno scherzo. Mi portarono in giro per la città a farmi divertire. A quei tempi bastava poco: la musica di una balera, un giro in Castello. Allora si cresceva così. Si sviluppava il senso di appartenenza e l’orgoglio di giocare nel Brescia».

Presto arrivò l’esordio in B.

«Mi feci subito male al ginocchio, così fui costretto a cambiar pelle. Da fine dicitore mi trasformai in centrocampista da battaglia. Vissi gli anni d’oro dell’era Gei con la promozione dalla B e l’esordio in A a 22 anni, con salvezza e 6 gol all’attivo. Tutto finì in estate con un telegramma».

Due giovanissime promesse biancazzurre: Ottavio Bianchi (a destra) ed Egidio Salvi © www.giornaledibrescia.it
Due giovanissime promesse biancazzurre: Ottavio Bianchi (a destra) ed Egidio Salvi © www.giornaledibrescia.it

Di congratulazioni?

«No, era della società. Dalla sera alla mattina mi fece sapere che l’indomani alle 11 avrei dovuto presentarmi al Napoli, mia nuova squadra. Allora era così, un calciatore veniva trattato da pacco postale. Una volta un presidente me lo disse chiaro e tondo: o accettavo l’ingaggio propostomi o potevo cambiare mestiere».

Napoli, il segno del destino.

«Brutto approccio, c’era lo sciopero dei netturbini e trovai la città sepolta dalla spazzatura. Il primo istinto fu di tornarmene di corsa a casa. Per fortuna non lo feci: perché poi giocai con Sivori e Altafini e nel 1970-71 fummo in testa al campionato per tutto il girone di andata. La città era impazzita di gioia».

Arrivarci dopo da allenatore non la colse impreparato.

«Conoscevo con quanta facilità si passi dall’esaltazione alla depressione. E viceversa. Mi misi la corazza, a costo di passare per antipatico. Il calcio separato dalla vita personale, niente cene con giornalisti o addetti ai lavori. In compenso costruii amicizie meravigliose, mi innamorai della città e dei suoi splendidi abitanti».

Amore ben corrisposto.

«Ancora oggi, dopo 36 anni, c’è chi mi ringrazia per quello scudetto. Ma gli interpreti veri furono i giocatori. Avrei portato loro persino il caffè a letto. Purché facessero quello che dicevo io, però».

Anche Maradona...

«Dopo i primi screzi, costruimmo un solido rapporto, nel rispetto reciproco. Era un generoso in campo e fuori, mai un compagno di squadra che ne abbia parlato male. Una volta gli dissi che con qualche rinuncia in più la sua carriera sarebbe durata all’infinito. Mi disse che era fatto così, doveva andare sempre al massimo».

Gli anni di Napoli hanno fatto passare in secondo piano altre, importanti, soddisfazioni colte in panchina: le salvezze di Avellino e Como, la promozione in B con l’Atalanta, la Coppa Italia con la Roma.

«E pensare che cominciai per caso. Ero in B a Ferrara , ormai a fine carriera, esonerarono l’allenatore e chiesero a me, che ero tra i giocatori più anziani, di rivestire il doppio ruolo. La cosa mi piacque subito. Il resto l’ho imparato col tempo».

Una lezione su tutte?

«Il gruppo da coltivare come il bene più prezioso e il rispetto del lavoro altrui. Non ho mai considerato Domenico Casati mio vice, parola che non mi piace. L’ho sempre considerato il mio più stretto collaboratore».

Sola macchia, l’esonero all’Inter nel 1995.

«L’unico della mia carriera, un po’ me lo cercai. Perché già in estate avevo notato cose che non mi piacevano, mi lasciai convincere a restare da Moratti, e fu un errore. L’addio fu l’inevitabile conclusione».

Fatale una sconfitta a Napoli, il passato che ritorna. Lì poi cominciò la sua terza vita, quella da dirigente.

«Mi avevano già chiamato nel 1993-94, l’anno prima che andassi a guidare l’Inter. I tempi d’oro ormai erano alle spalle, si viveva di prestiti. Scelsi come allenatore Marcello Lippi, uno attento ai giovani: dopo le prime due sconfitte ne fece debuttare uno che non uscì più di squadra, Fabio Cannavaro. Tutti e due poi nel 2006 si laurearono campioni del mondo. Tornai nel 1996-97 e puntai su Gigi Simoni: arrivò alla finale di Coppa Italia e l’anno dopo lo volle l’Inter di Ronaldo».

Nessun rimpianto?

«No, ho lavorato nel mondo del calcio, ed era quello che sognavo da piccolo. E l’ho sempre considerato un divertimento. I sacrifici veri li faceva mio padre, tipografo al Giornale di Brescia quando c’era ancora il piombo. Tornava a casa alle tre di notte in bicicletta, spesso in mezzo alla nebbia».

La sua vita oggi?

«Gioco a golf per tenermi in forma, leggo, sto con i miei figli. Seguo il calcio in tv, mi tocca restare informato, perché poi chiamate voi giornalisti».

Oggi molti le faranno gli auguri, aggiungiamo i nostri.

«Sempre graditi, anche se il traguardo è pesante. Ma guardo al passato con serenità. E se i miei 80 anni sono festeggiati con tanto affetto, vuol dire che qualcosina di buono nella vita ho combinato anch’io».

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