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Malgioglio: «Brescia terra solidale e coraggiosa»

L’ex portiere ha dedicato la sua vita al sociale: «Bisoli che vuole fare volontariato è un messaggio potente»
Astutillo «Tito» Malgioglio ha vestito la maglia del Brescia dal 1977 al 1982 - © www.giornaledibrescia.it
Astutillo «Tito» Malgioglio ha vestito la maglia del Brescia dal 1977 al 1982 - © www.giornaledibrescia.it
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Il senso di tutto è riassunto nella conclusione della telefonata: in lacrime. Di commozione, dettate dal dolore e dal senso d’impotenza: «Io sono qui, a casa e non posso fare nulla. Non posso andare dai miei ragazzi e alcuni di loro nel frattempo li ho persi. Ragazzi down, con gravi problemi di disabilità dei quali nessuno parla... Come sempre ci sono morti di serie A, B e C e non c’è nulla che si possa fare. C’è chi muore di Coronavirus, ma allo stesso tempo anche di solitudine e abbandono. Io sono qui, a casa, e non posso fare nulla per loro...».

La chiacchierata con Astutillo «Tito» Malgioglio, è di quelle che ti lasciano la sensazione di un pugno nello stomaco. Ti smuove. E ti proietta in una dimensione parallela. Ci riesce lui, che ha fatto parte del mondo dei «primi», ma che ha fatto dell’attenzione e dell’amore per gli «ultimi» la sua vera e unica ragione di vita. L’ex portiere del Brescia nel quinquennio ’77-82, poi scudettato con l’Inter dei record del Trap nell’89, non ha mai fatto parte del gregge calcistico in senso stretto. Addirittura al punto di essere trattato da pecora nera. Quella sua propensione a tendere la mano al prossimo, chissà perché l’ha pagata a caro prezzo. Come se la scelta di investire il proprio tempo e le proprie risorse per aiutare i bisognosi fossero una distrazione per l’impegno sul campo. Ma quella è acqua passata da 26 anni e la carriera sportiva per il portiere che col Brescia centrò una promozione in serie A nel ’79-80, l’uscita di scena dal mondo del calcio è stata addirittura una liberazione: «Ringrazio Dio di avermici escluso dandomi la libertà. Ho avuto la gioia di incontrare altre persone che hanno bisogno sul mio cammino».

Questi sono giorni, sono settimane, in cui ci si interroga su qualunque cosa. A partire dal senso della vita. Si è costretti a scavare dentro, a cercare nuove risorse e a guardare tutto da un’altra prospettiva. Anche lo sport. A cominciare dall’universo calcio.

Tiene banco il tema degli stipendi ai calciatori, al no del Barcellona all’ipotesi: «Per me questa faccenda è ingiudicabile. Non mi sento di fare valutazioni etiche perché non posso dare giudizi su chi col sociale non ha nulla a che vedere. Perché poi tirare fuori questioni etiche solo ora che siamo in un momento di emergenza? Perché non farsele prima certe domande? Io dico solo che lo sport, specie il calcio, è sempre stato un barlume di speranza per tanti ragazzi che si sono tenuti alla larga da brutte situazioni magari. Ma oggi il senso di tutto questo si è perso e chi ha fatto degli errori deve interrogarsi. Non è nemmeno colpa dei ragazzi».

Sa che il giocatore del Brescia Bisoli ha espresso il desiderio di fare del volontariato in questi giorni così difficili? E il Brescia gli ha dato via libera... «Sono molto felice di sapere una cosa così. Significa che Bisoli ha sentito un qualcosa che gli nasce dal cuore. Sarebbe stato più facile per lui organizzare una raccolta fondi, o donare cifre anche importanti... Ma ha espresso il desiderio di fare qualcosa che possono fare tutti, il ricco e il meno abbiente. È un messaggio molto potente che mi colpisce molto».

Lei vive a Piacenza, con la moglie Raffaella fate assistenza domiciliare a ragazzi disabili attraverso la vostra associazione «Era 77», ma che cosa sono rimasti Brescia e il Brescia per lei? «Brescia è il posto in cui tutto iniziò. E per me è un posto speciale, diverso da tutto. Brescia per me è eccezionale e non saprei come spiegarlo altrimenti».

È il posto in cui tutto iniziò a livello sportivo o umano in relazione a quella che poi è diventata la sua missione nella vita? «Entrambe le cose. Io mi sento adottato dalla città e dai tifosi che mi hanno dato tanto. La mia storia sportiva non finì bene, ma mi sono sempre sentito benvoluto. Brescia, dove io arrivai che avevo appena 19 anni, è dove considero che mia figlia Elena è nata anche se è nata a Piacenza. E lì mia moglie iniziò a insegnare a 30 ragazzi disabili: io ero molto coinvolto. Fosse stato per me ci sarei rimasto a vita».

Brescia terra solidale? «Assolutamente. Ogni anno a Pompiano organizziamo una giornata dedicata alla mia associazione. Ci siamo ritrovati anche a febbraio prima che scoppiasse tutto: una giornata fantastica all’insegna dell’amore. Il mio legame con Pompiano nasce grazie al mio grande amico Giuliano Roncali che conobbi al settor e giovanile della Cremonese. Lui è un alpino e con il gruppo locale organizzano sempre cose fantastiche coinvolgendo anche altri paesi dei dintorni».

Lei nel cuore ha anche Mompiano ma (non solo) per lo stadio, giusto? «Esatto. Qualche mese fa andai in visita alla scuola Nikolajevka e ho il ricordo di una giornata molto bella, memorabile. Tra l ’altro vi partecipò anche il portiere del Brescia Alfonso. Mi è rimasto impresso: aveva dimostrato molto entusiasmo e grande coinvolgimento emotivo. Credo che al di là dell’aspetto sportivo, Alfonso abbia molto potenziale da tirare fuori a livello di quello che potrebbe fare nel sociale. Ha un tratto molto umano che lo caratterizza».

Ma lei il calcio lo ha proprio abbandonato del tutto? «A me continua ad affascinare. Il calcio l’ho sempre fatto con passione fin dai tempi dell’oratorio e quando posso lo guardo. Ma solo in chiaro: non ho Sky e vedo quello che passa la Rai. Mi diverto anche».

Cosa si sente di dire ai bresciani? «Nulla perché non sono nessuno per lanciare messaggi. Mi limito a dire che alla gente della Leonessa il coraggio non è mai mancato e non mancherà a maggior ragione stavolta. Io spero, vale per tutti, che questo momento così drammatico, serva a tutti per riscoprire la grande bellezza della vita a livello spirituale e di vero significato oltre che del calcio».

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