Ciclismo, Kuba Mareczko si ritira: «Voglio una vita normale»

Alla fine Jakub Mareczko ha detto basta. «Non sopporto più stare mesi lontano da casa, cambiare ogni giorno albergo, seguire tabelle, programmazioni, una vita sacrificata allo sport in tutti i suoi aspetti. Adesso ho un figlio (Alexander ndr.) che voglio vedere crescere e una vita normale».
Scende di sella a soli 31 anni dopo 11 da pro, il velocista di Puegnago, doppio passaporto, italiano e polacco (nato in Polonia ma dall’età di 4 anni si trasferisce in Italia) dopo aver collezionato 67 vittorie fra i professionisti che lo pongono al terzo posto nella graduatoria dei ciclisti bresciani di ogni tempo per numero di successi (dietro a Michele Dancelli con 73 e Guido Bontempi 80).
Ma oltre ai successi ci sono alcuni podi di prestigio: tre volte secondo in tappe del Giro, un bronzo ai mondiali Under 23. Ha vestito le maglie di Wilier, Ccc, Vini Zabù, Alpecin, Corratec e per ultimo il team continental polacco Mazowsze Polski. L’abbiamo raggiunto a casa per farci raccontare la sua decisione e guardare al futuro.
Pentimenti nel corso della carriera?
«No, ho fatto lo sport che mi piaceva, mi sono tolto delle belle soddisfazioni, ho battuto degli iridati del calibro di Cavendish».
Fortissimo in volata, era allergico alle salite?
«Odio persino i cavalcavia – dice Kuba (questo il suo soprannome, diminuitivo di Jakub) – e questo fin da piccolo»
Quando ha iniziato a correre?
«Da G1, avevo 6 anni. Mia madre mi ha portato dove si allena ancora oggi la Soprazocco. Voleva che facessi uno sport e imparassi ad andare in bicicletta».
Ha vinto subito?
«Ricordo come fosse ieri la prima gara, a Nuvolera. Feci secondo, ma mi misi a piangere perché volevo la coppa, invece mi diedero una medaglia. Poi dalla gara successiva iniziai a vincere, a volte in volata a volte in fuga da solo. Per me quel ciclismo era divertimento».
Quando iniziò a pensare di fare sul serio. E quando si scoprì velocista?
«Da Juniores con l’amico Giancarlo (Otelli ndr.) mi divertivo ancora un sacco nelle volate, poi da dilettante ho iniziato a pensare al professionismo».
Passaggio precoce e subito molto vincente (13 centri da neopro).
«Non mi aspettavo un impatto così buono con i prof. Mi ha fatto passare il team di Citracca che ringrazio per l’opportunità».
Con le prime vittorie arrivano anche i primi scontri. Su tutti fece discutere il suo litigio con Elia Viviani (anche lui ha appena appeso la bici al chiodo).
«È successo al Tour di San Luis in Argentina, gennaio 2016. Entrambi correvamo per la Nazionale. Io avrei dovuto tirargli la volata, invece lo battei allo sprint. Non la prese affatto bene. Poi però c’erano i mondiali a Doha. Gli chiesi scusa e ci chiarimmo altrimenti i Mondiali me li scordavo».
Erano piatti, ideali per lei che fece uno splendido bronzo.
«Con maggiore supporto dei compagni si poteva forse fare di più, ma inutile pensarci».
Sono arrivati poi i podi nelle tappe del Giro.
«Ho trovato davanti a me una volta un super Gaviria con un treno favoloso e altre due volte Viviani».
La grande occasione arrivò al Giro del 2022, tappa piatta in Ungheria e Van der Poel in maglia rosa che le tira la volata.
«Quella volta non fui abbastanza scaltro. Ero alla ruota di VdP, all’ultima rotonda mi entrò come un kamikaze Fiorelli, ebbi paura tirai i freni e poi ho dovuto arrangiarmi. Arrivai quinto. Al rientro in Italia mi ritirai, ma a quel Giro non dovevo neppure esserci. Non ero pronto e per giunta mi ero rotto lo scafoide al Giro di Turchia».
La sua vittoria più bella?
«Allo Zlm Tour (2022) in Olanda, quando ho battuto Olaf Kooj, uno dei più forti al mondo».
E il giorno più sofferto?
«Al Giro d’Italia 2017. Undicesima tappa da Firenze a Bagno di Romagna. Si parte in salita, mi stacco subito da solo e devo faticare per restare nel tempo massimo. Piove tutto il giorno e fa freddo. Arrivo al traguardo completamente finito. Il giorno seguente c’è la Forlì Reggio Emilia, due Gpm da affrontare e arrivo in volata. Faccio secondo alle spalle di Gaviria. Tagliato il traguardo scoppio in lacrime».
Chiuso un capitolo della sua vita se ne apre un altro. Come si vede proiettato nel futuro?
«Vorrei stare nell’ambiente del ciclismo che ben conosco, ma non a tutti i costi. Sto frequentando il corso per ds».
Il suo sogno?
«Allenare uno come Pogacar, è come fare una volata con un treno di dieci uomini a disposizione. Difficile sbagliare».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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