Barcellandi, più che un allenatore: domenica saranno 750 panchine

A furia di dire che «anche quest’estate smetto l’estate prossima», Oliviero Barcellandi è arrivato a 750 panchine in 25 anni. Dal 2001 al 2025, un quarto di secolo nel nostro calcio. Elogio della continuità e, per dirla con l’allenatore partito dalla Mario Bettinzoli e oggi al Real Dor dopo avere guidato altre nove società, anche dell’arte di arrangiarsi.
«Quando mi chiedono che modulo utilizzo – spiega Barcellandi – sorrido. I moduli li ho studiati per avere il patentino, ma poi sono sempre i giocatori a dettarli. Li ho provati tutti, non ne ho uno preferito, dipende sempre dal materiale».
Paragone
C’è stato un momento in cui qualcuno l’ha paragonato ad Alex Ferguson. «E mi ha sempre divertito questa cosa: ovviamente non è una questione di capacità, perché io non sono mai andato oltre la Promozione, ma il fatto di avere interpretato spesso il ruolo di factotum ha favorito questo paragone. Sono stato allenatore, dirigente, direttore sportivo e al Pendolina Park Hotel anche presidente per sette stagioni. Proprio perché mi piace conoscere i giocatori con cui ho a che fare, mi è capitato spesso di essere in prima fila nel fare mercato, anche quando allenavo. Mi sono portato avanti per ciò che verrà quando smetterò di sedermi in panchina».
Ci arriviamo
Intanto domenica contro il Nave saranno 750 panchine tra campionato, Coppa e squadre Juniores. «Ho passato tre diverse generazioni di calciatori: quando ho iniziato, giocavano quelli degli anni ’70, poi i ragazzi degli ’80 e adesso ci sono i ’90 e i Duemila. Il calcio è cambiato? Sì, certamente, ma io non sono un nostalgico, ogni epoca ha i suoi pro e contro. Quello che mi spiace del calcio dilettantistico è che negli ultimi anni ha scimmiottato molto il professionismo, mettendo da parte la tecnica per puntare su fisicità e atletismo.

Nelle ultime stagioni c’è però un ritorno della fantasia. Il punto debole, oggi, sono i settori giovanili: mi sembrano in disarmo e meno produttivi che nel passato. E c’è un terzo aspetto in cui il calcio ricalca la società: il gran numero di stranieri, ragazzi che spesso devono essere aiutati fuori dal campo, nell’ambientamento. E allora lì l’allenatore diventa quasi uno psicologo».
Ricordi
Gli anni più belli sono quelli del Park Hotel? «Sì, perché lì ho smesso da calciatore e lì sono tornato dopo il loro salto in Figc: sono rimasto 13 stagioni, due volte abbiamo conquistato la Prima e una volta anche la Coppa Lombardia di Seconda. Io sono sempre stato un allenatore da salvezza, però al Park Hotel ho imparato a vincere. Ci arrangiavamo, ma siamo arrivati ad avere anche 160 tesserati in una stagione tra Figc e Uisp».
Però un bomber come Lobo Nelson aiutava. «Certo, ma anche lì era l’arte di inventare qualcosa di nuovo. Ideammo le “Ciottate”: Ciotti, nostro terzino, buttava palla in mezzo da rimessa laterale ed era il terrore delle difese. Quanti gol abbiamo segnato così, perché il calcio è bello anche quando hai questi colpi di genio».
Il calciatore più forte che ha allenato? «Questa è facile: Ziliani, ex Brescia, e Carè». L’allenatore al quale si ispira? «Nessuno: e non per presunzione, ma perché ciascuno è unico». Siamo davvero alla fine di una lunga storia? «Stavolta smetto, a fine stagione se mi sopportano fino a maggio». Sicuro sicuro? «Dai, c’è una clausola della quale ho parlato col presidente del Real Dor». Eccolo, il richiamo della foresta. «Non è facile, c’è una mezza parola per la riconferma solo se andiamo in Prima».
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