Momo Coly al passo d’addio: «Dalla Terza categoria alla serie B, un sogno»

Il difensore, oggi al Cellatica, saluterà domenica il calcio giocato e manda un messaggio alle giovani leve: «Credete nella cultura del lavoro»
Momo Coly - © www.giornaledibrescia.it
Momo Coly - © www.giornaledibrescia.it
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L’ultima gara è fissata per domenica. E sarà «sui generis»: perché Mohammed «Momo» Coly, difensore classe 1984, sarà in campo in Cellatica-Lodrino soltanto per salutare tutti e chiudere una carriera gloriosa, ma senza giocare. «Ho scelto di smettere perché, dopo la rottura del tendine peroneo lo scorso anno – spiega lo stopper del Cellatica – quest’anno ho avuto una ricaduta e allora ho pensato non fosse il caso di insistere. Quando il fisico manda dei segnali, è giusto ascoltarlo».

Tre campionati vinti - «ma ricordo di più quelli persi, tre tra i dilettanti per un punto (uno a Rezzato in D, ndr) e a Taranto tra i Pro a causa di 8 punti di penalizzazione» - e tanto professionismo.

Partendo dalle base

«A 19 anni giocavo in Terza categoria, da lì sono partito e sono arrivato a giocare diverse stagioni in B (con Cittadella, Pro Vercelli e Parma, ndr). Se oggi dicessi a un ragazzo che milita in Promozione, che in poco tempo potrebbe arrivare tra i Pro, non mi crederebbe. Oggi si molla un po’ troppo facilmente, invece bisogna insistere. Ho sempre creduto nella cultura del lavoro». Che Momo potrà portare avanti in un nuovo ruolo a Cellatica. «Per la verità sono già responsabile dell’area tecnica e allenatore dei Giovanissimi 2008, se poi arriverà un’altra proposta, la valuterò con la società. Di sicuro qui mi trovo davvero bene».

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Arrivato dal Senegal a 9 anni, Coly è cresciuto in provincia di Reggio Emilia. Oggi vive al Villaggio Badia, in città, ma il suo primo approccio con la brescianità è stato nei due anni di C2 a Rodengo Saiano (tra il 2008 e il 2010). C’è un rimpianto legato alla tua carriera? «In realtà due: il primo sono i tanti, forse troppi, infortuni, che per un giocatore molto fisico come me, mi hanno costretto a perdere tempo e qualche mezza stagione. Il secondo invece è legato alle difficoltà di tesseramento che, in quanto non italiano, ho incontrato soprattutto a inizio carriera.

A 19 anni sono finito in Terza perché una squadra professionistica non riusciva a tesserarmi in quanto extracomunitario, per la regola che non consente di sforare un determinato tetto. Però anche questo stop è stato uno sprone: sono andato avanti, ho lottato e sono arrivato dove volevo, nonostante tutto».

La più grande gioia invece? «Proprio il fatto di avere coronato il mio sogno di bambino: giocare tra i professionisti e farlo in serie B, peraltro in Italia dove il livello della cadetteria è altissimo». Come è cambiato il calcio in questi 29 anni di permanenza in Italia? «Adesso ha addosso troppe gabbie, su tutte la regola under. Io a 18 anni non giocavo, ma ho imparato e sono cresciuto con i grandi. Oggi a 18 anni devi giocare per regolamento: e questo abbassa la qualità, oltre a illudere tanti ragazzini». Un pensiero «Mundial» sul suo Senegal? «Siamo una squadra quadrata, che però segna poco e senza Manè sarà più dura. Se passiamo il girone, avremmo fatto il nostro. Da campioni d’Africa teniamo alto l’onore».

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