Pedrini e Reggi: «Gli azzurri del tennis un esempio, non solo in campo»

È lo sport più crudele, perché chi è in campo è clamorosamente solo con sé stesso. Davanti ha un avversario e, contemporaneamente, i propri demoni. Ma il tennis, di rado, è pure un gioco di squadra. E, ultimamente, quando scendono in campo le selezioni nazionali il tricolore finisce per sventolare più in alto di qualsiasi altra bandiera.
Domenica gli azzurri hanno vinto la seconda Coppa Davis consecutiva, sbarazzandosi agilmente dell’Olanda in finale. Il 20 novembre, le colleghe della Nazionale italiana femminile avevano invece vinto la Billie Jean King Cup, battendo la Slovacchia. Lo scorso anno si erano fermate a un passo dal titolo, sconfitte dal Canada.
Sinner e gli altri

Si è ufficialmente e definitivamente aperto un ciclo per il tennis del nostro Paese? Marco Pedrini, bresciano, 41 anni, già tra i primi 300 Atp nel 2006 e oggi direttore del Tennis Club Brescia 1960, ha un’idea precisa. «Di certo Sinner ha aperto un ciclo a livello personale, proprio in questo favoloso 2024 – fa notare –. È stato protagonista di un’incredibile crescita dal punto di vista mentale, fisico e tecnico. Può soffrire episodicamente, magari contro Alcaraz sulla terra, ma sulla lunga distanza è l’uomo da battere. In Davis ha trascinato i compagni, posto che Berrettini ha già dimostrato di essere un campione e può tornare tra i primi 10, e Musetti è un talento e viene da un’ottima annata».
Ha fatto discutere la scelta di capitan Volandri di non schierare Bolelli e Vavassori nel doppio decisivo contro l’Argentina, ai quarti di finale. «Avrei preso la stessa decisione – prosegue Pedrini –. Gli avversari Gonzalez e Molteni erano insidiosi, ma anche più leggeri. Sinner e Berrettini non sono specialisti, ma tirano più forte. Volandri non ha rischiato e ha fatto bene».
La Billie Jean King Cup
«Questa Billie Jean King Cup è prima di tutto un capolavoro della capitana Tathiana Garbin», commenta invece Raffaella Reggi, 59 anni, ravennate di Faenza, oggi commentatrice Sky, già giocatrice di altissimo livello (best ranking, tredicesima posizione nel 1988) e già capitana della Nazionale femminile, dal 1998 al 2001. «Ha assunto l’incarico quando le azzurre erano scivolate nelle retrovie del tennis mondiale, e le ha portate sul trono – sottolinea –. Le ragazze sono state eccezionali, e sono state trascinate da una Jasmine Paolini che è stata protagonista di una stagione difficilmente pronosticabile, culminata in questo successo di squadra. Ha grande merito anche il suo coach Renzo Furlan, che è realmente riuscito a entrarle nella testa. Oggi gioca in piena consapevolezza delle proprie potenzialità».
L’aspetto culturale
Nel tennis sei da solo, ma ogni tanto giochi in squadra, si diceva. «In Italia abbiamo questa cultura – sottolinea Reggi, facendo luce su un aspetto interessante –. Da noi i giocatori, fin da piccoli, sono abituati al concetto di club e di competizioni a squadre. Quest’esperienza, per esempio, fa parte pure del percorso di Berrettini. Più in generale siamo italiani, e quando mettiamo la maglia azzurra ci esaltiamo. E viviamo un’epoca eccezionale anche perché c’è immensa coesione tra i ragazzi, tra le ragazze e tra i due gruppi tra loro. Non è affatto scontato. Anche in questo senso il trofeo femminile è come se valesse doppio».
Marco Pedrini si è laureato con una tesi su Raffaella Reggi. I due osservano il movimento da prospettive diverse, ma concordano sull’effetto traino che questi successi possono avere sul movimento tennistico italiano. «Mi concentro soprattutto sull’aspetto umano dei protagonisti, a partire da Sinner e Paolini – commenta Reggi –. Sono un esempio per tutti». E un riferimento, conclude Pedrini: «Il tennis azzurro non è più relegato a trafiletti nelle ultime pagine dei quotidiani».
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