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Addio ad Angelillo, l'angelo dalla faccia sporca

Allenò il Brescia tra il 1975 e il 1977, dopo avere fatto esaltare i tifosi dell'Inter con le sue doti di centravanti
Da sinistra, Angelillo con Saleri, Altobelli e Beccalossi
Da sinistra, Angelillo con Saleri, Altobelli e Beccalossi
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Se n'è andato un altro degli angeli dalla faccia sporca. Antonio Valentin Angelillo era salito agli onori delle cronache del calcio appena ventenne, quando insieme ad Omar Sivori e Humberto Maschio aveva formato il trio delle meraviglie della nazionale argentina che nel 1957 in Perù aveva conquistato il Sudamericano incantando e vincendo tutte le partite. 

Così del suo talento di mezzala trasformata in centravanti (per questo una volta, anni fa, si era paragonato a Francesco Totti) si erano accorti in molti e l'Inter era stata la più veloce ad accaparrarselo, e la sua carriera era continuata in Italia, il paese dove poi aveva scelto di vivere (ad Arezzo) anche una volta smesso di giocare. La sua avventura in nerazzurro, cominciata arricchita da tanti gol e dal primato di segnature in un campionato di serie A a 18 squadre, con 33 centri nel torneo 1958-'59, era durata quattro anni. Infatti all'Inter, dov'era arrivato con baffetti e capelli pieni di brillantina, era diventato l'idolo dei tifosi, ma un giorno si era preso una cotta per una ballerina da night bresciana, Attilia Tironi, in arte Ilya Lopez, che lo aveva fatto «sbandare». Helenio Herrera, al quale certe cose non piacevano, aveva sfruttato l'occasione per chiederne e ottenere la cessione alla Roma (in giallorosso vinse la Coppa delle Fiere), con tanto di clausola segreta che ne impediva il trasferimento a Milan e Juventus. 

In rossonero Angelillo approdò successivamente, ma con poca fortuna, avendo ormai dato il meglio e perché i tifosi rossoneri lo fischiavano per via dei suoi trascorsi con i cugini. 

Successivamente passò alla carriera di allenatore, arrivando a Brescia. Sedette sulla panchina delle rondinelle dal 1975 al 1977, con tra gli altri Spillo Altobelli, Gigi Cagni e Evaristo Beccalossi. La squadra allora militava in serie B e sfiorò la promozione in A. Il mister venne poi esonerato alla ventesima di campionato, nel 1977: da lì in avanti girò l’Italia, allenando tra le altre Palermo, Mantova, Avellino e Arezzo, chiudendo la carriera con la Torres in serie C2 nel 1990/91, dove venne esonerato.

Angelillo era nativo della Boca, quartiere di Buenos Aires ad alta densità di immigrati italiani, la sua famiglia aveva origini lucane e suo padre faceva il macellaio. Per questo raccontava che in casa aveva sempre mangiato bene, ma anche che al filetto aveva ben presto preferito il pallone. Aveva imparato il calcio giocandolo per strada, come si usava a quei tempi, e che fosse un talento di grandi capacità di realizzatore si erano ben presto accorti il Racing prima e il Boca Juniors poi. Non a caso, ad appena 16 anni, aveva convinto tecnici e dirigenti del calcio albiceleste di aver scoperto un grande talento con cui cercare di ovviare alla fuga in Colombia del grande Alfredo Di Stefano. 

Tutto si era poi trasformato nella favola degli «angeli dalla faccia sporca» e anche Sivori e Maschio erano finiti in serie A e nella nazionale italiana, grazie al fatto di essere tutti e tre oriundi. Nel caso di Angelillo le presenze con l'Italia erano state comunque soltanto due, dopo le 11 con altrettante reti nell'Argentina, con cui non aveva più giocato da quando aveva appena 23 anni. «La Roma non aveva peso politico», aveva detto tanti anni dopo per spiegare la mancata convocazione azzurra per i Mondiali del 1962 in Cile. E a proposito di Coppa Rimet, gli era sempre rimasto un rimpianto: nel 1958 lui, Sivori e Maschio non erano stati chiamati dall'Argentina perché a quei tempi chi andava all'estero non poteva giocare in quella nazionale. Così l'Argentina in Svezia era stata subito eliminata, ma Angelillo era convinto che con lui e gli altri angeli in campo il mito di Pelè sarebbe nato qualche anno dopo.

 

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