Scuola

Arina

AA

Cara Arina,
volevo salutarti. Sono trascorsi dieci anni ormai, dall'ultima volta che ti ho visto.
Dopo l'allontanamento, tuo padre non ti ha più parlato di me, escludendomi completamente dalla tua vita.
Mi manchi tanto, figlia mia.
Ora hai compiuto diciassette anni, chissà come sei cresciuta, chissà come sei diventata bella.
Non credo tu abbia ricevuto la lettera che ti ho scritto sei mesi fa e se è stata recapitata, tuo
padre non te l'ha fatta vedere.
Non smetterò mai di amarti.
La mia vita, la mia esistenza si sono definitivamente spente in tua assenza; eri tu che coloravi i miei giorni (nonostante imbrattassi tutta la cucina quando ti divertivi con le tempere).
Ho capito il vero valore di quello che avevo quando l'ho perso...
Sono seduta su una sedia mentre ricamo in una giornata invernale e, soffermandomi a guardare la neve che cade, ripenso al giorno in cui ti allontanarono da me: per cinque
anni, tutte le sere, ti lasciavo da sola, andavo al bar e bevevo un numero tale di bicchieri di
whisky da non ricordarmi quanti fossero.
Ero molto irresponsabile.
Una mattina, precisamente la mattina del tuo compleanno, rientrando in casa dopo la solita "notte in bianco", trovai, in sala, tuo padre e due assistenti sociali, che ti
vennero a svegliare e ti portarono fuori casa.
Tuo padre mi diede come spiegazione solamente il fatto di non essere in grado di badare a una figlia. Menzogne.
Arina era felice con me, era amata. Credevo.
La tua nascita non era arrivata nel momento opportuno, sia per me che per lui: per lui perché aveva ancora voglia di divertirsi; per me perché a sedici anni una ragazza non
è pronta a diventare madre.
Ti avevo sempre considerato come un peso, un impedimento.
Oh quanto mi sbagliavo!
Da quel giorno affogai la disperazione nel ricamo. Divenni anche brava.
Non uscivo più di casa, non sentivo più le mie compagne, avevo persino smesso di bere.
Ho cercato molte volte di telefonarti , però non hai mai risposto tu e, infine, avete cambiato
numero.
Trentadue anni sono relativamente pochi, però per me sono anche troppi; mi sento come se fossi una donna anziana, che ha trascorso tutta la vita aspettando il ritorno del figlio partito per la guerra. Sa che non accadrà mai, ma come recita la frase: "La speranza è l'ultima a morire", attende invano che la porta si apra e il figlio urli: «Mamma, sono a casa!».
Ieri, dopo aver acceso la televisione, ho ascoltato il telegiornale e ho prestato molta attenzione alla notizia della scomparsa di un uomo e di una ragazza.
Era accaduto in condizioni non chiare.
«Li hanno identificati nelle persone di Gleb e Arina Vasilyev».
Mi scivolò dalle mani la lana.
Non poteva essere vero.
Pensavo fosse uno scherzo della mia immaginazione.
No, era tutto vero.
Tu e lui eravate morti.
A me chi rimaneva?
Ho iniziato allora a scriverti questa lettera e, due giorni dopo l'inizio della stesura di questa
missiva, trascorsi tra agonia e pianto, lentamente, in questa stanza buia e silenziosa che, per me, è come la cella di un carcere; non accetto l'idea di non poter mai più sperare di vederti.
Ho definitivamente deciso di porre fine alla mia vita, ignobile e solitaria, che ho trascorso in tua assenza.
Ti amo tanto.
Mamma Ifigenia
Laura Viotti– Ist. Santa Maria Degli Angeli (BS) – Classe II Liceo

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato