Cultura

«La classe avversa», il libro d'esordio del bresciano Albertini

Il romanzo (Hacca edizioni) concilia letteratura e industria
Visioni. Mario Sironi, «Paesaggio urbano con manichino»
Visioni. Mario Sironi, «Paesaggio urbano con manichino»
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Il protagonista del romanzo del bresciano Alberto Albertini, «La classe avversa» (che uscirà il 27 febbraio per Hacca edizioni, 320 pp. 16 euro), attraversa un periodo burrascoso con smacchi e umiliazioni: «È un eroe che per farsi tale deve diventare "anti-eroe" - precisa Albertini -, perché così viene giudicato in azienda chi ha obiettivi diversi dalla dedizione assoluta alla stessa o chi, addirittura, coltiva una pericolosa passione per le lettere. Anche la sua parabola è "avversa". Lo è pure la sua "classe", intesa come eleganza e stile, che nell’industria sono considerati debolezze».

Dipendente di un’azienda fondata dal padre e dallo zio, passata poi di mano e gestita in modo arrogante dall’azionista di maggioranza rappresentato dal «caimano» Cagnoni, il protagonista narrante è un uomo intenzionato ad imporsi nonostante le pressioni e gli ostracismi. Benché sminuito da un capo che cerca sempre di intralciare le sue iniziative, opera per aggiudicare all’azienda una fornitura di svariati milioni di dollari da una grande industria automobilistica americana. Sul versante degli affetti, l’attrazione verso una collega, Laura, e i rimorsi nei confronti della moglie Valeria e dei figli Giacomo e Beatrice sono difficili da equilibrare sui piatti d’una oscillante bilancia.

Il racconto profondo e dettagliato degli avvilimenti aziendali e dei rovelli sentimentali, è una discesa all’inferno tra interinali o «intestinali», disonesti e incapaci, critiche catastrofiche e dispute in cui svampa l’ira sottaciuta che avvelena i sogni e trasferisce competizioni e drammi nella più vasta rappresentazione d’una generazione in lotta con «la classe avversa» che tenta l’affondo, il colpo di grazia. A perire non sono solo gli individui, ma tutto un passato d’orgogli etici e primati eccellenti cancellati dalla foga competitiva dell’utile prima di tutto.

Il dott. Albertini, che opera in ambito industriale da 34 anni, ed è docente a contratto alla facoltà di Scienze linguistiche dell’Università Cattolica di Brescia, esordisce nella narrativa con questo ottimo romanzo, segnalato dal comitato di lettura del prestigioso Premio Calvino.

Dott. Albertini, la classe di imprenditori come il padre del protagonista, quelli del miracolo economico italiano, sono ormai tutti scomparsi e le aziende passate di mano. Colpa della globalizzazione o incapacità degli eredi?

La globalizzazione significa nuove strategie e nuovi modi di condurre l’azienda. Spesso la classe avversa agli imprenditori sono gli imprenditori stessi. Non hanno capito che dovevano gestire per tempo la successione in un percorso di formazione (per tutte le generazioni), aperto al confronto verso l’esterno. Ma per la prima generazione, affrontare l’argomento significa pensare alla propria «morte» e nessuno pensa davvero di morire. E per la seconda, è più comodo non pensarci, non creare tensioni. Invece ogni autodeterminazione passa da un trauma e da un distacco.

Il passaggio dal capitalismo familiare al capitalismo industriale, che lacerazioni ha procurato?

L’orizzonte temporale si è accorciato, non si lavora più per il futuro, per i «nipoti». Budget annuali, ritorno dell’investimento a breve, rapporti impersonali, «algoritmocrazia», decisioni obbligate e poi applicate da esecutori che ne ignorano l’origine. Aziende-stato talmente forti e indipendenti da essere in grado di battere moneta, ma davanti alle quali ci si sente come di fronte al «Castello» di Kafka.

Quanto è vivace oggi la creatività industriale italiana?

Molto vivace, per fortuna, è la nostra forza. Siamo ancora i migliori subfornitori, se non fornitori diretti in alcuni settori (moda, arredo, alimentari, ad esempio), proprio grazie alla cura che mettiamo in ciò che facciamo, rendendolo il più creativo possibile, artistico direi, bello nel senso greco di «kalokagathia», il bello che diventa anche buono.

La lezione di Ottiero Ottieri, quanto è stata importante nel suo percorso letterario?

Per me è stata fondamentale. Fino alla lettura dei suoi libri non pensavo fosse possibile una conciliazione tra letteratura e industria. Con lui ho capito che un letterato poteva entrare in azienda e leggerla con uno sguardo nuovo. Forse anche Olivetti a volte vide i letterati che aveva coinvolto quasi come degli inquisitori, osservatori e critici. Ma quei «diari» sono stati il primo vero tentativo di riflettere sull’industria italiana, sulla «civiltà delle macchine», darle una «visione», come hanno fatto i filosofi del ’900 sull’età della tecnica.

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