Cultura

Il dialetto di Borno risuona in «pciàsa»: il nuovo vocabolario

Mille pagine per seimila termini nel volume «La surtìa del saì» di Ghitti e Goldaniga fra nomi, luoghi e immagini
La nonna racconta ai bambini le storie della tradizione - Foto Archivio Fausto Schena © www.giornaledibrescia.it
La nonna racconta ai bambini le storie della tradizione - Foto Archivio Fausto Schena © www.giornaledibrescia.it
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A fine ’800 i bambini dell’altopiano la chiamavano bazàngola e un secolo dopo pigàlsa: oggi per loro è semplicemente e italianamente una altalena. È un affascinante viaggio attraverso il tempo - e attraverso la vita di un’intera comunità - il volume «La surtìa del saì», monumentale vocabolario del dialetto di Borno realizzato da Luca Ghitti e Giacomo Goldaniga. Opera che - nonostante la dichiarata puntualità geografica - sembra destinato a diventare un faro sicuro per chiunque ami navigare nell’ampio e articolato arcipelago del dialetto bresciano.

Il «Vocabolario del dialetto di Borno - La surtìa del saì» è edito per i tipi della Tipografia Valgrigna di Esine, 1055 pagine, 30 euro il prezzo di copertina. È possibile acquistarlo nelle edicole di Borno, Ossimo superiore e Ossimo inferiore, Malegno, Breno (libreria EDB), Braone, Capo di Ponte, Bienno (Bar Centrale), Piamborno, Darfo (libreria Merello), Lovere (libreria Mondadori), editore Valgrigna di Esine.

In mille pagine sono raccolti seimila vocaboli e di molti di loro sono proposti etimologia e usi idiomatici. Apparati di sicuro interesse sono i saggi introduttivi, che danno conto di aspetti morfologici e grammaticali. Ricchissima è poi la panoramica su toponomastica e cognomi e soprannomi del territorio (ricavata da Lucio Avanzini da antichi registri notarili) così come l’antologia di cartoline storiche. Studiare il dialetto di Borno significa ritrovare alcune delle dinamiche storiche e geografiche che caratterizzano più in generale la parlata (o le parlate) del nostro territorio. Innanzitutto la ricchissima sedimentazione storica: nel vocabolario dei nostri nonni accanto alle radici latine troviamo quelle celtiche, longobarde, franche... E poi la permeabilità geografica: il dialetto dell’altopiano, in particolare, registra influenze tanto dalla confinante bergamasca Val di Scalve quanto dalla più bassa valle dell’Oglio. E anche sulla base di queste costruisce una propria, originale peculiarità.

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Personalmente - infatti - ho trovato una vera chicca le ricche tabelle comparative che mostrano somiglianze e variazioni fra alcuni termini del dialetto dell’altopiano e i loro analoghi camuno, bresciano e bergamasco. Un vero regalo per chi ama il dialetto sono inoltre le tabelle che in «verticale» su alcuni termini specifici confrontano le attestazioni ottocentesche con le rilevazioni effettuate nel 1920 da Paul Sheuermeier per l’Atlante lessicale italo svizzero, e infine con quelle del 1995 confermate da Giovanni Bonfadini per l’Atlante lessicale bresciano. Un impagabile ponte temporale. Che racconta - ad esempio - come anticamente la ’alanga (la valanga) fosse l’endül (valanga), mentre l’attuale matìna (mattina) era la dumà (proprio come accade con lo spagnolo «mañana»), l’imbuto che oggi è il tortaröl era il pedriöl (da un greco bizantino «pletria» che indicava lo stesso oggetto). E via così...

«Sul piano della pronuncia - racconta Luca Ghitti, che del vocabolario ha curato l’aspetto fonetico - a Borno i nessi pl e bl hanno un esito interessantissimo. La plàtea latina (la piazza) da noi diventa anticamente pciàsa e solo in anni recenti ciàsa. L’aggettivo latino blundus a Borno diventa prima bgiónt e ora giònt. Mio suocero tiene ancora le pronunce antiche, le nuove generazioni le hanno perdute». Giacomo Goldaniga ribadisce col Vocabolario - ormai il suo cinquantacinquesimo libro - tutta la sua passione e la sua competenza per la storia e la cultura camune. Sente l’urgenza di raccogliere il segno di una parlata che cambia negli anni e la cui evoluzione si muove sempre più velocemente: «Le generazioni prima della nostra avevano il dialetto come prima e spesso unica lingua. Quelle che ci seguono sono ormai definitivamente approdate all’italiano. Il dialetto resta in piccoli ambiti familiari o di comunità locale».

Di qui l’auspicio: «Abbiamo confrontato fra loro le ricorrenze arcaiche ottocentesche con le rilevazioni di inizio e di fine Novecento. Di nostro abbiamo aggiunto rilevazioni sulla parlata attuale. Quando fra 50 anni qualche studioso tornerà sul tema potrà contare anche sul nostro lavoro». Un lavoro fondamentale per tenere in luce quella surtìa del saì, quella fonte del nostro sapere, che il dialetto rappresenta e custodisce.

 

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