Opinioni

Smartphone e silenzi: cosa ci insegna un Lemure sulla comunicazione

Silvia Valentini
Esiste, forse, qualcosa di meglio dei ristoranti per osservare come gli esseri umani comunicano tra loro?
Un lemure - © www.giornaledibrescia.it
Un lemure - © www.giornaledibrescia.it
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Esiste, forse, qualcosa di meglio dei ristoranti per studiare la comunicazione? Ne dubito, soprattutto quando la pausa pranzo di un’assolata giornata ottobrina, mi costringe a questa conclusione mentre cerco di nutrirmi evitando le due enormi biglie gialle, cerchiate di nero, di un grazioso Lemure che mi fissa lacrimevole dal tavolo di fianco. Non posso non annotare alcuni fenomeni.

1. Assorti come siamo negli smartphone, difficilmente parliamo con altri, ma se compare un Lemure al guinzaglio lo inondiamo di leziose parole, come fosse un neonato.

2. Uno strano fenomeno collettivo impone di fingere che sia una cosa comune portarsi un Lemure a pranzo in un assolato mezzogiorno ottobrino, senza essere Salvator Dalì (che girava per Parigi con un formichiere al guinzaglio) oppure in Madagascar.

3. Il Lemure parla con gli occhi.

4. In certe coppie uno dei due assume, a volte, lo stesso sguardo supplice del suricato sotto al tavolo. Come il giovane del tavolo di fronte, che ha appena spento una piccola candelina infilzata in una fragola sopra un tiramisù ed ora si guarda intorno, violaceo ed imbarazzatissimo, visibilmente grato al piccolo animale che sta calamitando l’attenzione di tutti mentre la sua matura compagna applaude festosa.

E poi loro: Carmen e Mario, che non mancano mai. Un intero pranzo senza dirsi una parola ma, soprattutto, senza guardarsi neppure per sbaglio e senza, fra l’altro, guardare il cellulare. Quando non si concentrano sulla pietanza che stanno mangiando, posano gli occhi su un qualsiasi tavolo, un qualsiasi punto circostante da fissare in inquietante silenzio. Quelle coppie che ti chiedi se non siano delle spie in incognito, le guardie del corpo di qualche personaggio importante, o investigatori privati e poi, romanticamente, concludi per una comunicazione ormai telepatica.

Li chiamo Carmen e Mario perché ogni volta mi ricordano i protagonisti del romanzo di Miguel Delibes (la cui lettura vi consiglio, Elliot edizioni) «Cinque ore con Mario». La summa teologica di una incomunicabilità di coppia lunga una vita, che Carmen, la moglie, libera in un flusso di coscienza postumo, durante le cinque ore di veglia solitaria al feretro del marito, deceduto improvvisamente nel sonno. Una resa dei conti catartica nella quale a Mario (che conosciamo solo attraverso le parole di Carmen) viene rimproverato di tutto: la freddezza (la prima notte di nozze si è girato dall’altra parte), le opinioni sempre divergenti, la mancanza assoluta di comunicazione (lui le nega persino di aver scritto una poesia su di lei) e di conoscenza reciproca, le rinunce (lei al lavoro ed alla agognata Seat 600), il sesso come un compitino da svolgere (sempre nei giorni sbagliati) per avere figli (ed essere evitata per il ventre gravido), il sacrificio, la solitudine, il non essere guardati, il tacito biasimo. Il volto oscuro dell’amore in cinque ore di monologo, non privo di una dolceamara, sorprendente, conclusione. Se la parola è un cammino sonoro ci sono coppie che trascorrono la vita in bolle insonorizzate. Si può non arrivare al congedo mortale per liberare il non detto, si può liberare il grazioso Lemure imprigionato.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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