Sinner e le macchine da sport che pretendiamo perfette

Davanti alla richiesta della Wada di squalificare Sinner per un anno o due, il punto non è la difesa a oltranza dell’azzurro, della sua buona fede, dando la colpa alla distrazione dello staff (già licenziato) o a regolamenti troppo occhiuti.
La vera questione è che lo sport moderno di alto livello vive ormai un rapporto di simbiosi estrema con la farmacologia e la medicina.
Perché i campioni sono diventati macchine talmente sofisticate da richiedere attenzioni molto particolati, altro che il “borraccino” di Fausto Coppi, che mischiava il caffè con la simpamina per avere una spinta di energia extra nel momento decisivo della gara.
Prestazioni strabilianti oggi vanno ripetute con cadenza ordinaria, lo richiedono gli interessi degli sponsor, dei media, delle televisioni. Nel tennis si gioca da gennaio a Natale senza soluzione di continuità, nel calcio c’è gente che disputa sessanta partite a stagione, nell’arco dello stesso tempo un ciclista professionista copre fino a 35 mila chilometri: se fosse un’automobile, o una moto, dovrebbe come minimo ogni dodici mesi cambiare l’olio, i filtri e controllare le pastiglie dei freni.
Ci si può stupire, dunque, se un atleta, si affida ai medici per tenere il suo motore sotto controllo, per migliorarne il rendimento, per accorciare i tempi di recupero dalla fatica e dagli infortuni?
Il risultate è che ogni tanto si inciampa, in un prodotto assunto senza sufficiente cautela, non necessariamente per dolo, o per la malizia di imbrogliare, il doping, come lo si intendeva una volta, è un’altra cosa. Sportivi di primo piano non bevono, al ristorante, se la bottiglia non è stata aperta davanti a loro, chiedono l’autorizzazione ai laboratori più sofisticati persino prima di prendere una pastiglia per il mal di testa o il raffreddore. La via verso la gloria è aspra e accidentata. Ogni tanto si può sbagliare.
Ma la vera ipocrisia sta a monte, sta nel desiderio antico del padre dello sport moderno, Pierre De Coubertin, che vedeva nel movimento olimpico una forma di pedagogia, un modo per educare i giovani al benessere e alla vita sana, nello spirito dell’antica Grecia: kalòs kai agathòs, belli e bravi.
Ora è evidente che questo principio non può essere declinato attraverso gli aiuti della farmacologia: il corpo dell’atleta è sano e puro, non può essere trattato come quello di un malato da ospedalizzare.
Ancora negli anni Venti era vietato ai partecipanti alle Olimpiadi affidarsi a un allenatore professionista, figuriamoci a un medico o a un farmacista.
E così lo sportivo, tra le tante figure, pubbliche è l’unico cui non è consentito derogare da un’immagine esemplare. Maledetti possono esseri gli artisti, i pittori (da Caravaggio a Jackson Pollock), i musicisti, i poeti (Baudelaire, Rimbaud e tanti altri ancora), gli attori, le rock star e persino qualche scienziato originale (Alan Turing, Nikola Tesla....), ma gli atleti no. Forse sarebbe ora di rimuovere questo velo ipocrita che ci obbliga a vedere lo sport con le lenti deformate della pedagogia giovanile: è business e spettacolo e i primi a pretenderlo siamo noi, gli spettatori.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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