L’economia chiede di ripensare la cittadinanza

Tra i temi che sembrano scuotere il sonnolento momento della politica nazionale quello più gettonato sembra essere il dibattito (tutto interno alla maggioranza) sulla necessità di rivedere le regole che disciplinano la possibilità di ricevere la cittadinanza per i giovani immigrati.
In estrema sintesi possiamo riproporre le diverse posizioni che vanno da chi chiede di rendere ancora più restrittivo l’ottenimento della cittadinanza per chi non nasce da almeno un genitore italiano o non sposa un cittadino italiano (modificando la legge che disciplina questo aspetto legando la concessione della nazionalità ad un lungo periodo -10 anni per i cittadini extraeuropei - di permanenza regolare nel nostro Paese ed un reddito adeguato oltre che la fedina penale immacolata).
Ci sono poi i paladini dello «ius solis» che prevede la «concessione» della cittadinanza per chi nasce nel Paese (al compimento dei 18 anni) e gli sponsor dello «ius Scholae» ossia la concessione della cittadinanza a cittadini che abbiano superato un determinato grado di istruzione.
Il confronto è aperto in tutto il mondo con Paesi che hanno aperto maggiormente le proprie barriere all’entrata ed altri che le hanno irrigidite. A ben vedere quella che si sta vivendo sembra oggettivamente una «battaglia» un po’ contro tendenza per quanto riguarda l’inevitabile orientamento dei popoli a muoversi spinti da esigenze le più disparate (pensiamo alla massa di giovani italiani che ormai difficilmente torneranno dalle nostre parti respinti da un sistema del lavoro poco propenso alla meritocrazia, alla valorizzazione dei giovani e delle loro competenze).
Provando però a fare un po’ di ordine proviamo a riflettere intorno alle radici di questo dibattito. Una prima lettura è legata ad aspetti sociali e alle loro declinazioni orientate all’inclusione o al cosiddetto respingimento. La prima si basa su valori che portano a ritenere ogni essere umano degno di potere vivere civilmente e liberamente la propria esistenza indipendentemente dal luogo di nascita, dal colore della propria pelle o dalle proprie credenze religiose.
La seconda ritiene necessario il contingentamento delle entrate sia per non «contaminare» culture ed etnie dei paesi ospitanti, sia per timore, non sempre reale per la verità, di una sorte di concorrenza sleale dei nuovi arrivati nei confronti di chi vive nei paesi da questi raggiunti in termini di richieste economiche e di adattabilità a lavori impegnativi e rischiosi. Sono posizioni contrapposte che agitano le politiche nei diversi paesi e che riemergono con una certa regolarità non soltanto in Europa.
Provando a sposare una visione più «pragmatica» molti riconoscono la «necessità» di potenziare i Paesi di accoglienza sia con riferimento estremo all’esigenza di non diminuire la forza lavoro, sia in relazione alla necessità di garantire sistemi di welfare che richiedono di un flusso costante di risorse per essere alimentato. A prescindere da queste «visioni» è innegabile che in tutti i paesi «ricchi» si siano sempre più andate consolidando realtà multirazziali alimentate da continui flussi di immigranti dai paesi più poveri o da quelli endemicamente sconvolti da eventi bellici. In Europa si calcola che nel decennio tra il 2013 e il 2023 siano stati più di 15 milioni gli immigrati naturalmente concentratisi nelle regioni più ricche. Sempre pragmaticamente si deve valutare il contributo concreto che l’immigrazione offre al mondo del lavoro.
Nel 2024 la percentuale di lavoratori che non sono cittadini dei paesi in cui operano ha percentuali importanti con un 10% per la Francia (con una concentrazione nelle strutture sanitarie - come in altri Paesi - che vedono il 25% degli impiegati non di nazionalità francese). In Spagna circa il 13% sono lavoratori provenienti da altri paesi, a sua volta la Germania vede circa il 17% dei lavoratori non cittadini tedeschi anche se questo dato è influenzato anche dalla presenza di lavoratori di altri paesi europei impiegati in settori emergenti dell’economia digitale e manifatturiera. In Italia il tema è controverso in quanto il nostro Paese mantiene un tasso piuttosto alto di lavoratori «in nero» ossia non regolari soprattutto nei settori come l’agricoltura, le costruzioni e quello dei servizi «poveri», dove si stima che il numero di lavoratori impiegati non cittadini italiani sia al 20% dei lavoratori.
Per concludere questa riflessione possiamo sottolineare come la percentuale di tasse pagate dai cittadini extraeuropei nei paesi UE, pur variando da paese a paese e nei vari contesti economici si stimi possa passare dal 4-6% della Germania, al 7-8% per la Spagna, al 9% dell’Italia (questa percentuale va rapportata al dato che dice che gli immigrati siano ormai un 5% circa della popolazione in Italia), al 14% delle entrate fiscali totali per la Francia. Per concludere è interessante sottolineare come un altro ambito nel quale questa esigenza dovrebbe essere da tempo gestita è poi quello sportivo. Sia nella recente coppa Europa di calcio sia alle Olimpiadi parigine abbiamo tutti potuto riconoscere il valore che nei singoli paesi riveste la multirazzialità, da questo punto di vista un dato interessante è legato alla finale degli europei che ha visto contrapporsi spagnoli e inglesi.
Se per gli inglesi erano in campo numerosi giocatori di seconda o terza generazione britannica (per una politica figlia della storia di quel Paese), per la squadra vincente dell’Europeo ben 5 giocatori erano di prima generazione ed il giocatore che più ha brillato Yamal (di origine marocchina) è entrato in campo all’inizio della competizione continentale ad appena 16 anni di età.
Per questo talento va sottolineato che se i suoi genitori si fossero diretti un po’ più a est venendo dalle nostre parti le porte della nazionale (eventualmente) si sarebbero aperte tra due anni. Anche per questo più che un dibattito da post spiaggia questo tema dovrà essere affrontato rapidamente non solo, dal punto di vista «sociale».
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