Le difficoltà dei terzopolisti

Le defezioni che hanno colpito Azione ripropongono quello che nella Seconda Repubblica è stato un problema costante
Carlo Calenda, leader di Azione - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Carlo Calenda, leader di Azione - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Le defezioni che hanno colpito Azione - il partito guidato da Calenda - ripropongono quello che nella Seconda Repubblica è stato un problema costante: l’impossibilità di creare o mantenere un centro «terzo» rispetto ai due poli, cioè un soggetto liberaldemocratico attento ai diritti civili, alla disciplina del bilancio pubblico, europeista e atlantista (praticamente, come furono il Pri e Pli e in parte il Psdi nella Prima Repubblica).

Si dirà che in una situazione di forte tensione bipolare lo spazio per un centro di questo tipo è ristretto: eppure, il 10,61% ottenuto (con circa tre milioni di voti) da Più Europa, Azione e Italia viva alle politiche e il 7,13% di Stati d’Europa e Azione alle Europee (1,669 milioni di voti) non sono poi così distanti dal 7,78% (8,85% aggiungendo anche i radicali) ottenuto da Pri, Psdi e Pli nel 1976 (cioè, del momento in cui la morsa di Dc e Pci bipolarizzò il sistema politico). In teoria, quindi, lo spazio politico ed elettorale ci sarebbe (o, forse, ci sarebbe stato, almeno fino alle scorse Europee).

Però nella Prima Repubblica con quelle percentuali si poteva essere determinanti, con la proporzionale e un sistema bloccato imperniato proprio sul centro. Oggi tutto è diverso, compreso il fatto che, se nel ’76 l’unico partito che si poteva definire - con molta cautela - «personale» era il Pri di Ugo La Malfa, oggi non abbiamo altro se non partiti dei leader. Cosa sarebbe di Italia viva senza Renzi, di Azione senza Calenda?

Un tempo, prevalevano le ideologie, i programmi, i progetti e le visioni del mondo a medio e a lungo termine: insomma, si sapeva chi e soprattutto per cosa si votava. Oggi tutto è mutevole e fragile. Ecco perché l’uscita di quattro pur illustri esponenti di Azione sembra l’Apocalisse, quando - tutto sommato - si tratta di esponenti che, di fronte alle recenti alleanze col centrosinistra nelle tre Regioni dove si andrà al voto fra ottobre e novembre, hanno preferito allontanarsi per trovare spazio nel gruppo misto o in soggetti politici (come Noi moderati) che fanno parte della maggioranza di governo.

Il problema di Azione - e, in generale, di quel centro liberaldemocratico che potremmo ricondurre idealmente all’area laica della Prima Repubblica - è che da un lato il personalismo non basta, anzi è deleterio e che, da un altro lato, la polarizzazione rende difficile mantenere a breve termine non tanto i voti, ma soprattutto la classe dirigente, in un’era nella quale votarsi ad un’opposizione eterna fuori dai due poli equivale a non governare mai, cioè a restare estranei rispetto al potere reale.

Senza contare che la «terzietà» non paga neppure quando, di fronte a proposte di legge del governo (per esempio sulla giustizia) che sono gradite ai terzopolisti si decide di votare a favore, quando l’elettorato è ormai irrigidito sul bipolarismo e sulla scelta opposizione-maggioranza anche su temi che possono essere bipartisan (come il sostegno all’Ucraina).

Il fatto poi di schierarsi in Basilicata col centrodestra e in Liguria, Emilia Romagna e Umbria col centrosinistra crea confusione. Un tempo non era così: il Pri poteva far parte di Giunte locali di centrosinistra (con la Dc e il Psi) o di sinistra (col Pci e il Psi) senza che nessuno avesse da obiettare. Ma allora veniva prima il Dna del partito, la sua impostazione programmatica, la sua storia.

Oggi i partiti non hanno storia o passato, ma solo leader indiscussi e presente, mentre gli elettori non hanno memoria (e alcuni protagonisti politici lo sanno bene, approfittandone bassamente, a destra come a sinistra). Se dunque non c’è un progetto centrista liberaldemocratico che superi le personalizzazioni e sfidi il tempo, a costo di perdere voti oggi per guadagnarli domani o fra qualche anno, è inutile edificare terzi poli.

Tanto più che a destra il centro lo stanno costruendo meglio, con Forza Italia che esisteva già (e che senza un leader indiscusso ora funziona e cattura consensi) e con Noi moderati che fa l’alternativa al centro, per «smistare» anche gli elettori fra quelli che si riconoscono negli «azzurri» e quelli più «neodc». Calenda e Renzi, invece, sono prigionieri di reciproche diffidenze, della natura di centrosinistra moderato del loro elettorato e della difficoltà di sfondare in un campo - il centrodestra - che è più che ben presidiato.

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