La morte di Matilde Lorenzi e la reazione dell’Italia

Perché siamo stati tanto colpiti dal tragico incidente della sciatrice Matilde Lorenzi?
Per la sua giovane età, è fuori discussione. E perché quella caduta ha spezzato un sogno sportivo, trasformando in lutto quello che molti considerano un privilegio raro: il talento, la possibilità di una luminosa carriera.
Ma anche perché necessitiamo sempre di più di rassicurazioni che, in questo caso, non sono arrivate. Davanti a una tragedia abbiamo bisogno di un colpevole, di qualcuno da condannare, di dare la colpa a un’imprudenza fatale. Viviamo in una società che, dall’intelligenza artificiale al Var, aspira al controllo totale. Stavolta tutto pare essere stato archiviato in maniera molto frettolosa: colpa del fato.
Certo, lo sci resta, a prescindere, una disciplina pericolosa, che nella competizione, e inevitabilmente nell’allenamento, associa l’equilibrio alla ricerca della massima velocità. Il rischio, per quanto calcolato, è la sua anima.
Giacinto Sertorelli, nel 1938, morì a Garmisch-Partenkirchen durante una gara di discesa: altra epoca, altre norme di sicurezza, altri materiali: preistoria. Lo stesso destino toccò a Ilio Colli, nel 1963, a Madesimo, le cui piste affascinarono Dino Buzzati. Josef Walcher, campione del mondo di discesa libera nel 1978 a Garmisch, morì nel 1984 a Schladming durante una garetta di beneficienza. Ulrike Maier, due volte campionessa del mondo di supergigante (1989 e 1991) cadde in discesa libera a Garmisch sbattendo violentemente il capo a terra e poi contro il paletto che reggeva la fotocellula che misurava il tempo intermedio. Mori per la frattura della vertebra cervicale. Un’inchiesta assolse gli organizzatori.
Nelle prove della libera del Lauberhorn a Wengen, il giovane Gernot Reinstadler, nel 1991, si infilò con uno sci nelle reti. Lo strappo gli provocò lacerazioni per le quali poche ore dopo morì all’ospedale di Interlaken. Da allora le protezioni consentono, al malcapitato che le urta, di non di rimanervi intrappolato come un tonno in un tramaglio di altura. La storia di Leo David è diversa, lì sì, ci furono errori e mancanze, anche gravi. Non sulle piste, ma dopo e a margine delle sue precedenti cadute.
Paradossalmente però lo sci è più pericoloso per chi frequenta la neve la domenica, in mezzo ai tanti che, a torto, si sentono campioni, che per chi lo pratica da atleta.
Guardate le immagini delle webcam che hanno ripreso alcune scene successive all’incidente di cui Matilde Lorenzi è stata vittima in Val Senales: il pendio è punteggiato di porte rosse e blu, ci saranno almeno venti tracciati affiancati l’uno all’altro. Vuol dire che su quella pista in quel momento si allenavano decine di atleti. Forse troppi, non sappiamo. C’è stata una caduta. Perché nello sci anche i più bravi cadono. Non sono state accertate, fin qui, responsabilità o omissioni. Ci avrebbero rassicurato? Dall’errore altrui, qualcuno si sarebbe sentito sollevato: l’imponderabile, l’impotenza, sono più scioccanti della scoperta di un dolo.
Matilde Lorenzi non è morta travolta da un treno, mentre riparava i binari per sbarcare il lunario, o cadendo da un’impalcatura su cui saliva senza protezioni. A quegli incidenti ahimè abbiamo fatto tristemente l’abitudine: li chiamiamo danni collaterali del lavoro. La morte drammatica di una giovane sportiva e il dolore dei suoi cari sono diventati cronaca di un’informazione che mette tutto nel frullatore. Interviste, pareri dei campioni, analisi per esorcizzare colpe e fato in modo da metterci al riparo dalle nostre paure. Riposa in pace Matilde, ti sia lieve la neve su cui amavi sciare.
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