In Siria la fine del regime di Assad apre una serie di incognite

Non si può che accogliere positivamente il crollo di una delle dittature più sanguinarie della storia recente. La fine del regime di Assad apre però una serie d’incognite e per quanto le analogie storiche vadano maneggiate con cautela, alcuni casi recenti – dalla Libia 2011 all’Iraq 2003 sino all’Iran 1978 – offrono un monito sui rischi che si aprono oggi in Siria.
La caduta inattesa e repentina di Assad lascia intendere che i suoi due grandi patroni esterni, Iran e Russia, lo abbiano infine abbandonato. Per necessità, impegnati entrambi su altri, onerosi fronti di guerra; e forse per scelta, che a questi fronti si accompagnano anche quelli diplomatici, pubblici e non, che impegnano Mosca e Teheran. Senza scivolare in rozze dietrologie, è difficile credere che la cavalcata trionfale, rapida e quasi indolore dei ribelli di al-Jolani e delle altre fazioni giunte in pochi giorni a Damasco non sia stata in qualche modo non ostacolata, in particolare dalla Russia
Come sempre in questi contesti volatili e incerti le dinamiche interne s’intrecciano con quelle regionali e globali. Soffermarsi solo sulle seconde e sui condizionamenti che esse esercitano porta spesso a sottovalutare o addirittura negare il ruolo e l’autonomia dei tanti attori siriani che concorreranno invece a decidere le sorti del Paese. Evitare di considerare tali attori come delle semplici pedine in mano di burattinai esterni non significa però minimizzare l’importanza del quadro internazionale e dei tanti soggetti interessati all’evoluzione del contesto siriano. Vi è, in altre parole, un’interdipendenza stretta e ineludibile tra nazionale e internazionale, interno ed esterno.
Il primo fattore a cui prestare attenzione sarà quindi il posizionamento delle diverse forze politiche e milizie siriane. È lecito essere scettici su una pacifica e consensuale collaborazione tra queste, anche laddove si accettasse una qualche articolazione federale del potere e conseguente condivisione di questo. Stiamo parlando di un mosaico complesso di diverse identità religiose, etniche e politiche, ulteriormente frammentato da quasi quindici anni di guerre civili, repressione e massicci esodi di popolazione, all’interno e verso l’esterno. Il tipo di regime che s’instaurerà è la prima, cruciale variabile. Anche perché da esso dipenderanno la natura e forma delle eventuali pressioni e ingerenze esterne da parte di attori con interessi non condivisi e, in taluni casi, apertamente conflittuali.

Per gli Usa la questione vitale sarà il realizzarsi di una qualche stabilità non declinata in chiave di islamismo antioccidentale e antisraeliano. Per Washington il Medio Oriente si è fatto al tempo stesso meno centrale – anche grazie a una crescente autosufficienza energetica – e più problematico, ché sono saltati antichi equilibri e nuovi vanno ricostituendosi. Rendere permanente e strutturale la temporanea sconfitta strategica di Russia e Israele completa il quadro degli obiettivi statunitensi, perseguibili anche dispiegando l’impareggiabile strumentazione militare di cui gli Usa dispongono, come hanno subito fatto colpendo vari siti dell’Isis in Siria.
Israele e l’Europa condividono almeno in parte gli obiettivi statunitensi. Per la seconda, una qualche stabilità siriana è vitale anche per prevenire il riaprirsi di crisi umanitarie ed emergenze migratorie che già in passato misero a dura prova la tenuta dell’Unione. Tel Aviv vede ulteriormente indebolito l’avversario iraniano e la capacità dei suoi proxy di colpirla, ma ha ovviamente tutto da perdere da una Siria che precipitasse nel caos o fosse stabilizzata da forze islamiche legate alla Turchia e pronte a far proprio il vessillo di un antisemitismo che rimane diffuso e popolare nella regione.
La grande incognita è infine rappresentata dai due sconfitti di questa vicenda, Russia e Iran. Non sappiamo se essa potrà avere effetti sulle dinamiche interne del secondo, segnate ancor oggi dalla dialettica tra riformatori e ultraconservatori, colombe e falchi. Lecito immaginare che a Teheran si rifletta su come ripristinare un deterrente screditato dalle azioni israeliane e, ora, dalla caduta di Assad, con il rischio di subire ulteriori colpi laddove decidesse di accelerare sul nucleare. Quanto a Mosca, infine, molto dipenderà dalla capacità di preservare la sua presenza militare anche nella Siria post-Assad, in particolare la fondamentale base navale di Tartus che le permette l’accesso al Mediterraneo. E, forse, anche dal tipo di concessioni che dovesse eventualmente ottenere da un negoziato sull’Ucraina.
Mario Del Pero – Docente di Storia internazionale Sciences Po Parigi
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