Opinioni

Imprevedibili duelli a «parole armate»

Anche se scambiate con rabbia, certe frasi sono meglio di gelidi silenzi
L'ingresso del Vittoriale - Foto © www.giornaledibrescia.it
L'ingresso del Vittoriale - Foto © www.giornaledibrescia.it
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«Tutto ciò che facciamo è al servizio dei nostri bisogni e la violenza non è che una tragica espressione di bisogni insoddisfatti» (M. Rosemberg) La luna è alta nel cielo, un cielo nero di un autunno indeciso: un giorno apre la porta agli ultimi scampoli di estate (come questa sera) e quello successivo lascia entrare il prepotente inverno ansioso di addormentare la natura.

Il Vittoriale di d’Annunzio è sapientemente illuminato, apparecchiato a lustro per la serata. La piccola Gardone luccica e brulica di persone festanti, venute da ogni dove per due ore di musica, allegria ed emozioni. Nulla pesa, neppure la coda per conquistare i marmorei gradoni dell’anfiteatro. A parte qualche tenero, giovane innesto, siamo tutti coetanei del cantante, boomers, e ci si riconosce dal fatto che, come lui, cerchiamo di sconfiggere in ogni modo l’anagrafe dribblando l’ingranaggio della ruota del Tempo.

Siamo tutti sereni, sorseggiamo bevande, addentiamo panini, diamo un’occhiata al programma del concerto, scattiamo foto, selfie, le donne parlano eccitate, gli uomini guardano partite di calcio sul telefonino; il vociare festante è la colonna sonora dell’attesa. Improvviso, come lo schiocco di una frusta, dentro alla coda, parte un insulto. Un insulto che usa il verbo essere e la seconda persona*: «tu sei (...)».

Sembra alle nostre spalle, evitiamo tutti di girarci, di guardare, ci facciamo silenziosi. Al primo insulto, ne segue un altro. L’uomo che li verbalizza ha un tono pacato che fa a pugni con la violenza delle parole che usa; gli fa eco una voce di donna che, con identica pacatezza, risponde al fuoco. Sembrano usare le stesse armi e le stesse pallottole, semplicemente lei deve avere un caricatore più fornito perché ne utilizza di più in minor tempo, mentre lui le centellina, forse sfinito, forse sguarnito. Inizia così questo fuori onda, questo duello infuocato ed incessante dai toni sommessi ma inesorabili.

Ci fingiamo tutti diversamente distratti ma i due sembrano indifferenti al luogo, alla situazione e, soprattutto, alla nostra presenza. Forse l’urgenza di buttar fuori quello che li tortura è impellente o forse il contesto collettivo li galvanizza. Sfugge a tutti il tema di questo contendersi la parola feroce, la parola sciacallo. Forse non esiste, forse sono ormai come due vecchi pugili che restano legati salendo sul ring a dirsele di santa ragione. Avanziamo insieme a loro, ligi ed ubbidienti, dentro le serpentine transennate sperando che, avvicinandosi la meta, la voglia di divertirsi diventi più forte della voglia di apostrofarsi addosso.

Rosemberg, in una conferenza, disse: «Noi dobbiamo essere come quell’uomo che vedendo cadere un bambino da una cascata corse a salvarlo ma subito dopo ne vide cadere un altro e salvò anche quello, poi un altro ancora ed uno subito dopo, finché, ad un bel momento, decise di scalare la cascata per vedere chi gettava giù i bambini».

Così mi faccio coraggio e mi giro a guardare chi sta «gettando bambini dalla cascata». I due sono affiancati, non si guardano, fissano un punto indefinibile di fronte a loro. Evitano anche il mio sguardo ma non smettono di attaccarsi, inesorabili come la goccia che dentro alle grotte crea piramidi di calcare. Indossano entrambi con alterigia le loro convinzioni: la prossemica parla chiaro, il non verbale anche.

Non arretrano di un passo, feroci, l’uno contro l’altra. Mi ritorna alla mente Massimo Recalcati quando afferma che: «noi tutti siamo fatti di linguaggio (...) Il nostro corpo, il nostro essere, la nostra anima sono fabbricati dalla parola dell’Altro. Siamo stati tutti a bagno nelle parole dell’Altro». Li guardo sguazzare in quel liquido reciproco dal quale difficilmente emergeranno i loro veri bisogni e mi convinco che, va bene così, perché in fondo una comunicazione, seppure sciacallo è meglio di un silenzio che non trasforma e scava sotterranee gallerie di rancore inespresso dentro l’anima.

Siamo all’ingresso ormai: «Io ho quel che ho donato» ammonisce la scritta al centro del pilastro illuminato. «Io sono ciò che penso e che dico», mi viene da aggiungere. La forza creativa del suono, le prime note di Caruso cancellano ogni cosa. Il vero spettacolo finalmente ha inizio. Speriamo se lo godano.

*un espediente per trasformare il linguaggio da sciacallo in giraffa è parlare in prima persona (così da uscire dal sistema giudicante) e non usare il verbo essere o dovere bensì: sentire e pensare.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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