Il pensiero di Rosemberg e gli istinti bellici

Soffiare e spegnere le candeline della torta di compleanno è un rito antico: il fuoco allontana gli spiriti maligni, al momento dello spegnimento si esprime un desiderio che, catturato dal fumo sale verso il cielo; le candele vanno poi spezzate affinché nessun altro si appropri del nostri intenti impedendone l’avverarsi.
Il 6 di questo mese, il «padre» della Giraffa e dello Sciacallo, Marshall Rosemberg, ne avrebbe accese (e spente) 90. Come non pensare a lui, mentore di questa rubrica, in occasione della, quasi contemporanea e drammatica ricorrenza dell’inizio dell’escalation di un conflitto antico, che, ad un anno di distanza, ancora lascia il mondo attonito, annichilito ed impaurito? Come non riflettere sulla sua vita interamente dedicata alla ricerca di un modo che trasformasse i nostri pensieri e le parole che li esprimono, al punto da pacificare ogni tipo di dissidio fra gli esseri umani? Come analizzare la sempiterna inclinazione umana alla guerra, pensandola da Giraffa e non da Sciacallo (quindi nell’ottica binaria della ragione e del torto, del giusto o sbagliato, della colpa e della ragione)? Difficile, molto difficile.
Sul tema della guerra entrano in gioco molteplici fattori. Quelli inerenti la natura umana ed i suoi istinti primordiali che Lacan e Freud ed illustri psicologi hanno analizzato mostrandoci come, nella paura estrema, nel fanatismo degli ideali, nel combattimento e nella macellazione dei propri simili, spesso si inneschino forme di esaltazione perversa, la liberazione di istinti animali ed un senso paradossale di libertà estrema. Quelli legati all’antropologia culturale che ci ricordano come le guerre siano un fenomeno recentissimo sulla linea evolutiva, scaturente dalla trasformazione dell’essere umano da cacciatore-raccoglitore ad agricoltore stanziale.
Lo stesso Rosemberg tratteggia questa mappa. I dissidi nascono nei primi insediamenti stabili, circa 8000 anni fa, con la creazione di strutture organizzate in maniera gerarchica (che giustificano il fatto che una piccola parte di uomini prenda decisioni per la restante maggioranza). La creazione di confini, l’avvento della religione e soprattutto la creazione di eserciti stabili spostano l’'attenzione dai bisogni e dalle emozioni alle idee. L’economia stabilisce che le cose valgono in funzione del prezzo: più è alto, più hanno valore.
Tutti questi fattori pongono il fenomeno della guerra all’interno della complessità. La domanda quindi diventa: davvero la parola ed il pensiero possono trasformare l’umanità? Rosemberg credeva di sì. «Non dubitare mai che un piccolo gruppo di persone impegnate possa cambiare il mondo, è l’unica cosa che lo abbia mai cambiato», soleva dire. E l’ha dimostrato andando di persona nelle zone di guerra, portando la sua comunicazione non violenta ovunque ci fossero sanguinosi conflitti.
Figlio di ebrei polacchi fuggiti negli Stati Uniti, ha vissuto sulla sua pelle, da ragazzo, la violenza verbale dei suoi coetanei; violenza e rabbia che, fuori dalle aule scolastiche, raggiunta la strada ed i quartieri si trasformava in agguati, risse, pugnalate ed insensati omicidi. Qualcosa che abita la strade delle nostre civilizzate città moderne, inutilmente edulcorate dall’anglofono «smart» (brillante) quando a brillare sono ancora e sempre le lame dei coltelli in mano ai giovani.
Ascoltando i processi ai nazisti, Rosemberg sente dire: «Obbedivo a un ordine». L’ordine impartito a parole solleva, quindi, dalla responsabilità, toglie empatia ed umanità consentendo di diventare esecutori di genocidi nella più totale indifferenza. La guerra ha un suo vocabolario con il quale gli uomini spesso giocano. Parabellum (dal motto latino si vis pacem para bellum) è un calibro di proiettile; Little Boy il nome della bomba atomica sganciata su Hiroshima; Enola Gay il nome della madre del pilota del veivolo che l’ha portata a destinazione.
Negli anni ’30 e ’40 Victor Klemperer scriveva: «Il linguaggio del Terzo Reich cerca di privare l'uomo della sua individualità, di stordirlo, di trasformarlo in un’unità del branco senza cervello e senza volontà, che viene frustata e guidata in una certa direzione». Ogni guerra mette in atto questo dissennamento. La ripetizione infinita di parole emotivamente caricate di negatività fa sì che si radichino nella mente e diventino unità attive nel linguaggio del parlante, modificando il suo vocabolario (e quindi il suo pensiero) senza che se ne accorga (lo abbiamo visto con il Covid e il termine No Vax).
Si può detronizzare questo processo modificando, in modo stabile, il modo di pensare e di comunicare rendendosi impermeabili all’odio e creando connessioni profonde, umane ed empatiche. «L’umanità deve riuscire a trovare un metodo per risolvere i conflitti senza vendetta, aggressione e contrattacco», diceva Martin Luther King. La comunicazione non violenta questo fa e da molto tempo. Buon compleanno anche a te, caro Marshall Bertram Rosenberg.
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