Trump contro Harvard: nazionalismo che tracima in xenofobia

Era scontato che un giudice bloccasse subito il provvedimento dell’amministrazione Trump che sospendeva il processo di validazione dei visti degli studenti internazionali di Harvard, impedendogli di fatto di iscriversi o rimanere nel più prestigioso e antico ateneo statunitense. Si apre ora quella che sarà presumibilmente una lunga disputa legale, dagli esiti ovviamente incerti, ma nella quale la parte più debole pare essere Harvard. Che dipende per la ricerca dai contributi federali; e che rischia di vedere una drastica riduzione delle domande di ammissione di candidati internazionali o richieste di trasferimento in altre università di quelli attualmente iscritti, a fronte dell’incertezza del loro status.
Questi ultimi costituiscono quasi il 30% del totale e, pagando mediamente più tasse dei loro corrispettivi statunitensi, hanno anch’essi un ruolo importante per il bilancio di Harvard. Per il suo bilancio e per la ricchezza della sua vita accademica, come sa bene chi ha il privilegio d’insegnare in atenei con corpi studenteschi così plurali e cosmopoliti. Cosa ha spinto Trump e la sua segretaria per la Homeland Security, Kristi Noem, a promuovere un’iniziativa così estrema: un altro tassello di quella inequivoca torsione autoritaria avviatasi immediatamente dopo l’insediamento di Donald Trump il 20 gennaio scorso? Almeno tre risposte, strettamente intrecciate, possono essere offerte.
La prima riguarda specificamente Harvard e il suo scontro in atto con l’amministrazione repubblicana. Come con altri atenei, Trump ha cercato di fissare delle condizionalità molto intrusive alla continuazione dei finanziamenti federali all’ateneo. Una sorta di commissariamento governativo – sui contenuti dei programmi, sui processi di reclutamento, sulla governance di alcuni dipartimenti e di centri di ricerca – a cui dopo qualche tentennamento iniziale Harvard ha deciso di opporsi con fermezza, forte delle sue risorse e, anche, del suo peso politico. Il pretesto usato dall’amministrazione è stato quello di una presunta, eccessiva tolleranza dell’ateneo nei confronti delle manifestazioni su Gaza dell’anno scorso e la loro asserita deriva antisemita. Di pretesto, però si tratta. Il vero obiettivo – coerente con il disegno autoritario in atto – è quello di limitare autonomia e indipendenza di università dove una larga maggioranza del corpo docente e di quello studentesco esprime posizioni politiche e culturali antitetiche a quelle trumpiane.
Una volta innescatosi lo scontro, è divenuto – per Trump – ancor più importante piegare Harvard. La presa di posizione dell’ateneo bostoniano ha costituito infatti un esempio e precedente che altre università, grandi e piccole, hanno iniziato a seguire. È questa la seconda spiegazione del blocco dei visti agli studenti internazionali: il suo carattere patentemente intimidatorio. Un elemento centrale di tante iniziative di questi primi mesi di Presidenza – dalle espulsioni e gli arresti arbitrari di studenti e immigrati agli ordini esecutivi contro specifici individui o studi legali – l’intimidazione è metodo di governo privilegiato della seconda amministrazione Trump: strumento con cui ricattare, disciplinare e silenziare.
La terza e ultima spiegazione ce la offre la natura del provvedimento e il suo bersaglio: gli studenti stranieri. Trasformati di fatto in ostaggi di questo scontro con Harvard. Proprio per il loro essere stranieri: per quel che ciò rappresenta e per la loro oggettiva vulnerabilità, di molto maggiore a quella di universitari statunitensi. Ciò a cui stiamo assistendo costituisce insomma esempio di un nazionalismo che tracima quasi invariabilmente in nativismo e xenofobia. Cui Trump e altri membri dell’amministrazione hanno dato voce in svariate occasioni in questi mesi, con toni e modalità forse senza precedenti. E che sono visibili e quasi ostentati anche in questo ultimo attacco a Harvard.
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