Dobbiamo spiegare ai nostri figli come accettare e superare la perdita

«È l’amore. Dovrò nascondermi o fuggire. Crescono le mura del suo carcere, come in un sogno atroce (...) È, lo so, l’amore: l’ansia e il sollievo di sentire la tua voce, l’attesa e la memoria, l’orrore di vivere nel tempo successivo. È l’amore con le sue mitologie, con le sue piccole magie inutili. C’è un angolo di strada dove non oso passare. Già gli eserciti mi accerchiano, le orde. (Questa stanza è irreale: lei non l’ha vista). Il nome di una donna mi denuncia. Mi fa male una donna in tutto il corpo». (Jorge Luis Borges).
Piaccia o non piaccia, la Perdita è la costante della nostra vita. Veniamo al mondo tramite una «perdita» (quella del legame simbiotico con nostra madre) e la lasciamo «perdendola», la vita, e con essa tutti i legami che abbiamo intessuto. Perdiamo persone, amici, persino noi stessi, mutando pelle di continuo, perdiamo i nostri figli che diventano adulti, i nostri animali domestici, i nostri genitori, perdiamo i ricordi, la memoria di una voce. Eppure, quando si tratta della fine di un Amore, e lo scrivo con la maiuscola, sembriamo sempre, assolutamente, costantemente non attrezzati ad attraversare questo processo ed elaborarlo, finendo invece, spesso e volentieri, nel trasformarlo in un delirio tragico, a volte, insensatamente, definitivo.
È cronaca la sconvolgente escalation di delitti passionali fra giovanissimi, spesso neppure legati fra loro da vere relazioni sentimentali, ma invischiati in ossessive, unilaterali, infatuazioni. Matteo Lancini, Presidente della Fondazione Minotauro di Milano, dai microfoni della Sala Libretti, domenica scorsa, ci ha ben descritto da quale realtà provengano questi fatti di cronaca: una società che ha eliminato le emozioni negative dal dialogo educativo (nel sogno utopistico di poter avere figli inebetiti di finta felicità e senza frustrazioni) e li ha privati del corpo fisico inghiottito dal virtuale. Un’esposizione continua delle nostre vite, che non può che alimentare ed aumentare in modo esponenziale certe ingestibili ossessioni che, in giovani poco attrezzati a gestire la sofferenza, detona nei noti epiloghi drammatici.
La ricetta per il dolore perfetto? È una sola: attraversarlo, accoglierlo come una componente essenziale dei sentimenti e verso la conoscenza di sé. L’amore non finisce, finisce il potere dello sguardo dell’altro su di noi. È la perdita di quel «noi stessi», illuminati dall’altro, come in un luna park, che ci fa pensare che la vita non abbia più senso quando quello sguardo ci abbandona. Una mancanza che, tempo al tempo, potremo tranquillamente riempire di nuovo. Spieghiamolo ai nostri figli! Come? Attraverso l’esempio, attraverso le parole, soprattutto quelle scomode che ci fanno paura. E se non ne abbiamo attingiamo ai racconti di chi c’è passato e ha avuto il coraggio di mettersi alla scrivania e narrarsi.
Come ha fatto Luigi Nacci ne: «I dieci passi dell’addio», un libro che consiglio. Meraviglioso, vero, poetico, commovente, che finalmente ci proietta dentro quell’insondabile, indicibile universo confuso delle emozioni maschili di fronte alla fine di un amore. «L’ho scritto avendo davanti a me il baratro - ci dice Nacci - non ero sicuro di salvarmi, ma ogni volta che scavando trovavo dentro di me una parola, trovavo un appiglio. Oggi piove. Quando piove lei mi manca di più». Leggetelo e salvatevi, salvateci...salvatele...
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