Corea del Sud, la legge marziale atto estremo di un politico ormai solo

Chiunque conosca il sottoscritto sa perfettamente che negli ultimi tre decenni ho considerato la Corea del Sud molto più che un semplice oggetto di studio o un paese di adozione in cui insegnare o fare ricerca; più semplicemente, la Corea è sempre stata «casa mia».
E così, quando l’Ambasciata italiana a Seoul mi ha invitato per prendere parte alla presentazione di un volume – a cui ho contribuito – volto a celebrare i 140 anni dall’avvio di relazioni diplomatiche tra Roma e Seoul, non ho avuto alcuna esitazione. Al mio arrivo, dopo quattro mesi di assenza, la Corea mi è sembrata la solita di sempre, soltanto molto più fredda a causa del vento siberiano che, in questo periodo, si abbatte con forza sul paese.
Ciò che invece non ero preparato a fronteggiare – e che mi ha lasciato totalmente attonito – è stato il breve discorso effettuato dal Presidente di questo splendido paese in cui si annunciava l’adozione di misure emergenziali finalizzate a «sradicare le forze filo-nordcoreane» presenti in Parlamento e a «proteggere l’ordine democratico costituzionale».

Un pronunciamento di tal fatta, che avrebbe comportato l’imposizione immediata del controllo militare diretto sulle normali funzioni civili di governo e che dovrebbe generalmente essere applicato in risposta a temporanee situazioni di grave emergenza, ha scatenato un turbinio di emozioni in gran parte della popolazione sudcoreana, riportando le lancette dell’orologio indietro di vari decenni, a un’epoca che sembrava consegnata definitivamente alla storia.
La Corea del Sud, per chi non la conosce bene, non ha avuto un passato semplice dal punto di vista politico, considerato che la sua transizione dall’autoritarismo militare a un regime democratico è avvenuta soltanto nel 1987 grazie soprattutto allo sforzo della società civile che, stanca delle dittature e dei dittatori, si rovesciò in strada determinando la conclusione di una esperienza – quella delle dittature militari – protrattasi per più di un quarto di secolo.
Nel corso di quella lunga e drammatica esperienza, la Costituzione fu più volte modificata e «violentata», e l’applicazione della legge marziale all’interno del paese si ripeté con angosciante periodicità fino al 1980 per sopprimere con la violenza i vari movimenti di protesta. Quelli erano i giorni del drammatico «massacro di Kwangju», una sorta di Tienanmen sconosciuta ai più, durante il quale cittadini inermi furono trucidati dai militari convinti dai loro superiori – e questi a loro volta dal dittatore di turno – di avere a che fare con un tentativo di rivolta ispirato dal regime nordcoreano.
LEGGE MARZIALE IN #COREA 🇰🇷 ❗️
— Asiablog.it (@Asiablog_it) December 3, 2024
Il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha dichiarato la LEGGE MARZIALE per «proteggere l’ordine costituzionale democratico» del paese e «sradicare le forze filo-nordcoreane».pic.twitter.com/X1yWgvlqLA
Lo sventolio della minaccia comunista – da sempre parte integrante del bagaglio politico dei conservatori sudcoreani – non poteva ovviamente mancare nella dichiarazione di ieri del Presidente Yoon Suk-yeol, che ha cercato goffamente di far digerire al paese l’emanazione della legge marziale creando un vaneggiante parallelo tra l’azione delle forze di opposizione all’interno del Parlamento e il regime dittatoriale di Kim Jong Un a Pyongyang.
Dopo l’annuncio di Yoon, i militari hanno proclamato che il parlamento e altre assemblee politiche che potevano causare «confusione sociale» sarebbero state sospese e che chiunque avesse violato il decreto poteva essere arrestato senza mandato; ciò nonostante, il parlamento ha agito rapidamente dopo l’imposizione della legge marziale, con il presidente dell’Assemblea Nazionale Woo Won-shik che ha affermato che la legge era da considerarsi «invalida» e che i legislatori avrebbero «protetto la democrazia insieme al popolo». Vista l’immediata e imponente reazione di tutte le forze politiche – incluso il partito conservatore di cui il presidente è espressione diretta – e della società civile, il presidente Yoon ha deciso di revocare dopo circa sei ore le misure speciali imposte al Paese, senza peraltro avanzare alcuna scusa per la situazione creata e anzi continuando a criticare l’operato del Parlamento ai suoi danni.
La questione sostanziale è che questa sorta di colpo di Stato orchestrata da un presidente in carica in un Paese democratico è frutto della stessa inconsistenza politica di questo personaggio, salito agli onori delle cronache alcuni anni fa per essere stato il pubblico ministero da cui venne firmato l’ordine di impeachment – tramutatosi poi in arresto – ai danni della presidentessa sudcoreana di allora – macchiatasi di atti di corruzione – e, successivamente, affermatosi seppur in maniera risicata alla elezioni presidenziali dopo aver promesso l’abolizione del Ministero della Famiglia e delle Pari opportunità, sostenendo che non fosse efficace nel risolvere problemi sociali come il calo della natalità e le disuguaglianze di genere, e che molte delle sue funzioni potevano essere trasferite ad altri ministeri o enti governativi.
La sua carriera presidenziale, peraltro, è stata punteggiata da una serie rilevante di scandali – a cui Yoon ha reagito negando la possibilità di qualunque indagine indipendente – che hanno coinvolto lui direttamente o la sua famiglia, e che hanno finito per comprometterne seriamente la credibilità, affossando il tasso di approvazione nei suoi confronti. La proclamazione della legge marziale, quindi, va vista come un atto mosso dalla disperazione di un leader politico rimasto solo, in particolare a seguito del sonoro schiaffone ricevuto ad aprile scorso in occasione delle elezioni politiche, quando il controllo del Parlamento è passato nelle mani dell’opposizione.
Ciò, infatti, ha complicato ulteriormente la capacità del Partito del Potere Popolare (PPP) di Yoon di portare avanti la sua agenda legislativa, accentuando le tensioni tra governo e opposizione e rendendo quasi impossibile l’approvazione di leggi fondamentali per il funzionamento dell’amministrazione. Le divergenze principali hanno riguardato la legge di bilancio, le riforme economiche e quelle giudiziarie.
Il Partito Democratico ha respinto con forza la proposta di bilancio per il 2024, accusando il governo di tagliare programmi sociali a favore di politiche volte a beneficiare i grandi conglomerati economici. Le riforme giudiziarie avanzate dal governo sono state percepite come un tentativo di accrescere il controllo esecutivo sulla magistratura, attirando ulteriori critiche da parte dell’opposizione e delle organizzazioni civili. Lo stallo politico è stato aggravato dall’ostilità personale tra Yoon e i leader del Partito Democratico; l’opposizione, infatti, ha minacciato più volte di procedere con l’impeachment di figure chiave del governo, alimentando un clima di instabilità. Parallelamente, le tensioni si sono riflesse anche nelle proteste di piazza, dove crescenti critiche alla gestione di Yoon e a scandali legati alla sua amministrazione hanno ridotto la sua popolarità. Molti cittadini lo accusano di un approccio autoritario, amplificato dall’uso di decreti presidenziali per aggirare l’ostruzionismo parlamentare.
In questo contesto, il presidente Yoon si è trovato sempre più isolato politicamente, con la seria prospettiva di misurarsi con elezioni anticipate o una paralisi prolungata. Che tali difficoltà potessero convincerlo ad attentare alla stessa integrità democratica del paese era, tuttavia, una possibilità a cui nessuno aveva neanche lontanamente pensato e che ci lascia tutti in un forte stato di shock. Per fortuna, come accaduto già alcuni decenni or sono, i rigurgiti autoritari sono stati seccamente respinti dall’attivazione di una società civile fieramente determinata a difendere la propria democrazia.
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