Come Dante ci insegna a praticare l’empatia tra bias ed euristiche

«Mi chiamo Joakim» risposi. «E io sono Mika. Dì un po’, perché stai a testa in giù?»
Scoppiai a ridere. Credo che rimase un po’ intimidito alla mia reazione, perché si infilò il pollice in bocca e cominciò a succhiarlo come un neonato. Allora mi scappò un’altra risatina. «Sei tu che stai a testa in giù» gli spiegai. Mika si tolse il pollice di bocca e cominciò ad agitare tutte le dita, poi disse:
«Quando due persone si incontrano, e una sta a testa in giù, non è così semplice stabilire chi dei due sta nel verso giusto».
(Jostein Gaardner - C’è Nessuno?- )
Saper osservare la posizione dell’altro con la curiosità priva di pregiudizi del bambino che incontra un suo simile, proveniente da un altro pianeta, sarebbe meraviglioso. Sappiamo bene, invece, quanto sia difficile, una volta diventati adulti, mettersi nei panni dell’altro ed accettare la sua visione della realtà, il suo sentire, le sue emozioni e le sue sofferenze.
La comunicazione, quella che Marshall Mc Luhan chiamava la «tecnologia della chiarezza», invece di aiutare, spesso risulta affetta da piccoli virus cognitivi che si interpongono fra il detto ed il percepito, creando temibili corto circuiti ed orribili trappole mentali, tecnicamente chiamati: bias ed euristiche. Bias è un termine inglese che trae origine dal francese provenzale Bias (che a sua volta deriva dal latino e prima ancora dal greco) e significa obliquo, inclinato. Inizialmente, tale termine era usato nel gioco delle bocce soprattutto per indicare i tiri storti; nella seconda metà del 1500 il termine assume un significato più vasto e viene tradotto come inclinazione, predisposizione al pregiudizio.
Le Euristiche invece sono procedimenti mentali intuitivi e sbrigativi, scorciatoie mentali che spingono a costruire un’idea generica su un argomento, a creare strategie veloci per giungere rapidamente a conclusioni che confermano, però, cose di cui siamo già convinti. I Bias sono quindi particolari euristiche usate per esprimere dei giudizi che, alla lunga, diventano pregiudizi su cose mai viste, di cui non si è mai avuta esperienza, le euristiche invece attingono ad informazioni già immagazzinate in memoria, cercando conferme a pregiudizi già esistenti.
Entrambe temibili trappole nei processi comunicativi. «Ma il guaio è che voi, caro mio, non saprete mai come si traduca in me quello che voi mi dite». Ammoniva, nel 1926, Luigi Pirandello nell’opera Uno, nessuno e centomila: «Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; ed io, nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto».
Come esce il Mediatore da questo impasse? Con quali escamotage? Ne esce con un solo, grandissimo, difficile strumento. Uno strumento che Dante ha sintetizzato in quel suo meraviglioso neologismo: «intuarsi» che, dal Paradiso, Canto IX-81, secoli prima della scoperta dei neuroni specchio, ci offre la miglior definizione dell’empatia, come chiave che porta al rispecchiarsi nell’altro, al sentire l’altro affermando con l’anima: «s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
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