Taiwan e Cina, gli Stati Uniti riscrivono l’equilibrio del Pacifico

«La minaccia di un’invasione è reale e imminente», ha detto il segretario alla Difesa statunitense Hegseth
Un velivolo della flotta aerea di Taiwan durante un'esercitazione - Foto Epa/Ritchie B. Tongo © www.giornaledibrescia.it
Un velivolo della flotta aerea di Taiwan durante un'esercitazione - Foto Epa/Ritchie B. Tongo © www.giornaledibrescia.it
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«La minaccia di un’invasione cinese di Taiwan è reale e imminente». Con queste parole, pronunciate al Shangri-La Dialogue di Singapore, il Segretario alla Difesa statunitense Pete Hegseth ha trasformato una valutazione di intelligence in un atto politico, ridefinendo radicalmente la postura comunicativa degli Stati Uniti sulla questione taiwanese. Per anni Washington ha mantenuto una politica di «ambiguità strategica», evitando dichiarazioni troppo esplicite sulla possibilità di un conflitto con la Cina. Ma il discorso di Hegseth segna una rottura netta: non si tratta più di prevenire un’escalation, ma di preparare l’opinione pubblica internazionale all’inevitabilità di uno scontro. Il suo intervento non mira tanto a Pechino – che già si muove nella consapevolezza di uno scontro sistemico con gli Stati Uniti – quanto agli alleati regionali ed europei, a cui si chiede implicitamente di accettare una nuova ortodossia strategica in cui l’intervento militare non è più eventuale, ma già in via di legittimazione.

La chiave interpretativa non è contenutistica – che la Cina stia rafforzando le sue capacità militari attorno allo Stretto è noto da tempo – ma simbolica: parlare di «attacco imminente» nel contesto del principale forum di sicurezza dell’Asia-Pacifico, con una retorica da Guerra Fredda e richiami espliciti al dovere degli alleati di investire fino al 5% del PIL nella difesa, vuol dire iscrivere lo scenario bellico dentro la normalità del possibile. Il lessico dell’allarme si fa grammatica della deterrenza. La formulazione stessa della minaccia, in quanto «reale», rimuove qualsiasi zona grigia interpretativa. Hegseth – con un gesto linguistico performativo – rende la guerra potenziale un riferimento operativo: se il conflitto è solo questione di tempo, allora tutto ciò che avverrà da qui al 2027 (anno che egli stesso indica come «termine ultimo» per Pechino) sarà letto retroattivamente come prefigurazione del casus belli.

Le implicazioni sono profonde. In primo luogo, la dichiarazione contribuisce a consolidare l’idea secondo cui una guerra su Taiwan non sarebbe un’escalation locale, ma la manifestazione più drammatica dello scontro egemonico tra Stati Uniti e Cina. Non si tratterebbe di difendere una democrazia insulare, ma di preservare l’intero assetto normativo dell’ordine internazionale liberale. In secondo luogo, essa rende molto più difficile qualsiasi posizione di mediazione da parte di paesi che, pur allineati agli Stati Uniti sul piano formale, preferiscono mantenere una certa autonomia strategica. Il messaggio è chiaro: chi oggi non si prepara alla guerra, domani sarà complice della disfatta. Non stupisce, dunque, che la Cina abbia reagito con durezza, accusando Hegseth di seminare divisioni e provocazioni ideologiche.

Ma anche questa risposta riflette una consapevolezza condivisa: il terreno della legittimità è ormai quello della narrativa, e chi domina la narrazione prepara le condizioni per dominare la sequenza delle reazioni future. A ben vedere, Hegseth non si limita a mettere in guardia dal pericolo cinese: egli produce un dispositivo retorico che funziona su tre livelli. Sul piano militare, normalizza l’idea di un confronto diretto nel Pacifico come evenienza strutturale. Sul piano politico, delegittima ogni forma di esitazione da parte degli alleati presentandola come irresponsabile. Sul piano ideologico, insinua che l’unica difesa dell’ordine internazionale passa dalla disponibilità alla guerra. In questo quadro, persino un attacco limitato o una crisi circoscritta nello Stretto di Taiwan verrebbe interpretata come la prova definitiva della «verità» preannunciata da Hegseth, e dunque della necessità di reagire. Si crea così una profezia che si autoavvera: la guerra è resa più probabile proprio perché si parla di essa come inevitabile.

Le conseguenze geopolitiche di questa svolta comunicativa sono già visibili. Da un lato, Washington guadagna margine per rafforzare la propria presenza militare nella regione senza attendere provocazioni tangibili: la semplice «preparazione cinese» giustifica la reazione americana. Dall’altro, si accelera la corsa agli armamenti nei paesi alleati, con pressioni implicite a costruire una nuova architettura di sicurezza indo-pacifica che ricalchi quella euro-atlantica. Il riferimento di Hegseth alla «capacità dissuasiva collettiva» non è astratto: è il segnale che una nuova forma di contenimento globale è già in fase di costruzione. Ma ogni contenimento, per definizione, ha bisogno di un nemico che non solo esista, ma sia credibile come minaccia attiva. In tal senso, la Cina viene progressivamente trasfigurata in una categoria strategica: non più un attore razionale con cui negoziare, ma un avversario sistemico contro cui difendersi.

Il passaggio contenuto nelle parole di Pete Hegseth non è dunque un semplice atto di denuncia, ma un dispositivo d’anticipo. È il tentativo di codificare l’inevitabilità del conflitto come orizzonte di senso condiviso. Il suo discorso non fotografa lo stato delle cose: lo produce. E in questo sta la sua potenza – e il suo pericolo. Perché se la guerra diventa la logica in base a cui si organizza la pace, allora la pace stessa smette di essere una possibilità autonoma. Diventa un intervallo tra due scontri, una tregua armata in attesa del prossimo shock. Se oggi parliamo di «attacco imminente», domani potremmo trovarci a dover scegliere non se combattere, ma come e quando. Ed è proprio questo il nodo che la comunità internazionale dovrebbe affrontare, prima che il linguaggio della guerra si trasformi definitivamente nella sua realtà.

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