La nazionale che non va e i campetti che non ci sono

Cosa c'entra la nazionale che non azzecca due passaggi con Obesi Digitali? Tanto, molto più di quanto pensiamo.
Ci sono, lo sappiamo bene, circa sessanta milioni di commissari tecnici. Io faccio parte di questo grande gruppo di esperti autocertificati. E la mia parola, quindi, vale molto poco. Però ci sono fior di campioni che hanno le idee chiare e condividono una chiara idea: la crisi del calcio italiano parte dai campetti, che non ci sono. O se ci sono restano deserti. I bambini non giocano più, salvo un paio di ore a settimana alla scuola calcio. Perché?
Poca attività fisica
La domanda, si perdoni la fissazione che abbiamo in questa rubrica, ha una risposta piuttosto scontata: è colpa del divano. E soprattutto di quello che facciamo, per ore, sul divano. Spaparanzati con un telefonino in mano, o con un joystick poco cambia, i nostri ragazzi non hanno poi tanta voglia di correre sotto il sole, o al freddo o anche con la pioggia dietro a un pallone. Così, poco per volta, diventano animali da appartamento. Appesantiti, pigri. Isolati.
Diciamo che i problemi quindi sono due: troppo telefono, poca attività all'aria aperta. Uno mangia l'altro perché, fino a prova contraria, il tempo che si ha a disposizione è sempre quello, e non aumenta né diminuisce. Le ore del giorno sono e restano comunque ventiquattro. Se se le mangiano tutte o quasi i social, la conclusione è scontata.
Ma che fare allora?
Beh, diciamo che l'iniziativa spetta a noi adulti. Bisogna dare un'alternativa allo sport da divano. Trovare il modo per ripopolare i campetti. E qua ci si permetta di puntare il dito. Contro molti ma, sia chiaro, non contro tutti.
Parto da una domanda: quanto è difficile per dei ragazzi trovare oggi un campo decente senza dover pagare l'affitto? Oratori chiusi per la maggior parte del giorno, o peggio oratori con un campo carino, ma a pagamento. Cinque euro a testa all'ora o niente. Parchi pubblici che di calcio non ne vogliono sapere. E non si dica che bastano due magliette per fare una porta. Non è più così, perché i ragazzi oggi sono più sofisticati, e soprattutto perché se per accidente dietro la porta passa qualcuno proprio mentre sferri un diagonale di collo e colpisci il malcapitato. Beh, resta solo la speranza di aver una buona assicurazione.
E così capita che i bambini, i ragazzi, non abbiano un posto dove giocare a calcio. Capita che allora si rassegnino e se ne stiano a casa col telefono che, a differenza del campetto, è facilmente disponibile e sempre gratis. O quasi.
Questo porta, ha portato, una generazione a perdere dimestichezza con i dribbling, con i gol, con il giocare sette contro cinque e i cinque siccome sono più forti possono segnare solo di testa e da fuori area. Questo toglie non solo la poesia del calcio, ma anche la capacità di giocare. Perché va da sè: meno usi un attrezzo, meno confidenza hai con esso.
E l'Italia del calcio se ne va, triste, verso partite come quelle che abbiamo visto, piene di errori e vuote di idee.
Siamo un popolo di santi, poeti e navigatori. La poesia del calcio, l'ho detto, la stiamo perdendo. Ci resta allora solo da navigare a vista, e invocare qualche santo che ce la mandi buona. Ma così non si va molto lontano.
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