Volantino sul Garda tradotto in un pessimo inglese
Poco tempo fa mi è capitato di leggere il volantino di una manifestazione musicale che si svolgeva sulle sponde del Lago di Garda. Era scritto in inglese, evidentemente rivolto ai turisti stranieri. Visto che io ho dimestichezza con la lingua ho voluto leggerlo per curiosità, ma ho avuto subito delle brutte sorprese. Infatti «Batteria» era tradotto con un orribile «Battery« (in realtà è «drum kit») mentre «Piano» era diventato un agghiacciante «Plan» (in realtà, in inglese resta uguale). Insomma, ora basta! Si fanno discorsi infiniti su Brescia che vuole diventare città d’arte e non più città industriale, ma poi si cade miseramente sul volantino di una manifestazione musicale, tradotto di sicuro con Google Translate perché chi doveva approntare la versione inglese non ha ritenuto di investire 5 minuti, 5 miseri minuti del proprio tempo consultando un dizionario, cartaceo o on line. Per la cronaca, lo svarione linguistico è già stato messo alla pubblica gogna, su Facebook. E sì che il testo era semplicissimo... Se fosse stato di tipo tecnico-scientifico? Non oso immaginare il risultato. Eppure a Brescia abbiamo una bellissima Facoltà di lingue e letterature straniere (dove anch’io mi sono laureato) con ottimi professori, che sforna dottori sicuramente capaci di farsi intendere in almeno due lingue straniere. Nonostante ciò, la traduzione (o meglio, una traduzione «come si deve»), viene vista ancora come un «extra», qualcosa di superfluo. Anche se tutti, ovunque, si riempiono la bocca di anglicismi come «stakeholder», «conference call», «green», «food and beverage» eccetera, per sembrare più «cool», il massimo che si può pretendere in una conversazione è «The pen is on the table». Il mestiere del traduttore non gode di nessunissima considerazione: a volte capita di ricevere una committenza per telefono e poi vedersela smentire 10 minuti dopo perché (testuali parole) «la fa mio cugino». Gratis, scommetto. Ovviamente non sto inventando nulla: questo assurdo episodio l’ho provato io in prima persona. Mi corre un brivido lungo la schiena a pensare quante altre traduzioni dozzinali hanno fatto sganasciare i turisti stranieri solo perché non si è voluto assumere un vero traduttore pagandolo il giusto (non certo un «tozzo di pane»). Spero solo che il Primo ministro inglese, Mrs. Theresa May, non si sia trovata sul menù «Angry Pens» (penne all’arrabbiata) o «Stuffed Sardinians» (sardine ripiene) nella sua vacanza a Salò. Altrimenti siamo messi male, molto male. Soprattutto se parliamo un «mescolotto» delle due lingue ma restiamo ignoranti in inglese, che è la «lingua franca» internazionale, e ignoranti in italiano, nostra lingua madre, che comunque ha sicuramente degli equivalenti per tradurre alla perfezione le parole inglesi usate a sproposito. In Italia noi traduttori siamo la proverbiale ultima ruota del carro. Non abbiamo nemmeno un ordine professionale: ma se potete leggere «Il fantasma di Canterville» in italiano lo dovete a un «fantasma» come noi, il cui nome, se c’è, è scritto piccolo piccolo sulla pagina che si salta sempre a piè pari. Se si vuole che Brescia passi da «città del tondino» a città culturale allora ci si deve anche mettere in testa che la traduzione di un testo esposto in pubblico va affidata a un professionista che farà un lavoro «a regola d’arte», non come il primo venuto che si ricorda l’inglese delle Medie o è stato 6 mesi a Londra, ma gli viene preferito perché non si fa pagare. E d’altra parte il traduttore professionista esige il suo compenso, perché la sua professionalità ha un costo; la sua non è un’opera fatta per la Croce Rossa, non è di semplice contorno a spettacoli e iniziative ma è necessaria, anzi indispensabile: un «biglietto da visita» fondamentale da presentare, per non fare (ancora una volta) la figura dei cioccolatai con chi viene in visita dall’estero.
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