Vita in campagna: quando il lunedì si faceva il bucato

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In campagna, quando la vita della maggior parte degli italiani ruotava intorno ai ritmi delle coltivazioni agricole e dell’allevamento, i giorni della settimana erano scanditi da azioni ripetute e costanti, secondo un calendario non scritto ma rigorosamente osservato. Cosiccome il venerdì era di prammatica cucinare il baccalà con la polenta (in verità la polenta c’era tutti i giorni), il lunedì era il giorno del bucato. Le famiglie erano molto numerose e l’operazione era abbastanza complessa (vista con gli occhi di oggi) e durava, generalmente, tutto il giorno. La prima operazione consisteva nell’approntare quello che era definito, il fornello del bucato. Un enorme paiolo sostenuto da una struttura in ferro sotto il quale si accendeva il fuoco. L’acqua per raggiungere gli 80/90° ci metteva una bella oretta. In primis, dentro il paiolo, con acqua bollente addizionato con perborato di sodio e/o liscivia, ci finiva la biancheria: lenzuola, federe effetti personali, tovaglie, camicie bianche della festa. La liscivia (in dialetto «lissioh») prima dell’avvento dei prodotti chimici all’inizio del ’900, si otteneva attraverso un procedimento di amalgama tramite bollitura di cenere e acqua (una parte di cenere setacciata e cinque parti di acqua). Ogni massaia di campagna fino agli inizi del secolo scorso sapeva ricavare questo detergente naturale. Sia Il perborato di sodio che la liscivia erano (sono) prodotti a bassissimo impatto ambientale. Terminata la «bollitura» della biancheria, nel paiolo, con i residui dei detersivi del lavaggio precedente, ci finivano gli indumenti di lavoro del marito, comprese le «famose» pezze da piedi. Queste ultime, altro non erano che ritagli di cotone resistente che venivano usati a protezione del piede negli stivali o negli zoccoli da lavoro («trocoi»). Permettevano di «risparmiare» le calze che si sarebbero sdrulcite con grande rapidità. Queste operazioni di «bollitura» del bucato duravano in genere 2/3 ore e, pertanto, la mattinata se n’era andata. Alle 11 arrivavano i mariti dal lavoro dei campi e il pranzo doveva essere pronto. Il pomeriggio iniziava con il risciacquare tutto quanto era stato lavato al mattino. Sì, ma dove? In questo caso, da noi, in pianura, le soluzioni erano molteplici. Solitamente nei pressi delle cascine c’era sempre un fosso d’acqua corrente con un accesso facilitato tramite una sponda ribassata che consentiva di accedere facilmente al livello dell’acqua. L’operazione di risciacquo doveva terminare velocemente per poter godere delle ore di sole, prima della notte, per asciugare quanto lavato in quel lunedì. In tempi più recenti, per risciacquare, si poteva usare la grande fontana che tutte le cascine avevano per abbeverare gli animali, posta generalmente al centro della stessa in prossimità dell’aia. In paese dall’inizio del ’900 furono creati i lavatoi pubblici e prima ancora, solitamente c’era sempre un fosso che attraversava il paese stesso. A Ghedi, per secoli, fu il vaso «Chies» o «Ce» che svolse questa funzione. In dialetto, quando un’impresa è ritenuta lunga e fastidiosa la si definisce «l’è ’na boegado». Ecco, si riferisce proprio alla complessità dell’antico bucato del lunedì. Certo, si inquinava molto meno anche se la fatica era molta. Ma del resto non esistono risultati che si possono ottenere senza fatica.

// Ludovico Guarneri
Ghedi

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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