Una vita insieme da El Alamein ai nostri giorni

AUGURI AI NONNI
AA

1 gennaio 1941 - 1 gennaio 2011, 70 anni di matrimonio di Teresa Saiani (classe 1919) e Cesare Zola (classe 1914). Anche quest'anno, come spesso accade, questa ricorrenza, che ha visto riunita la nostra famiglia, ha riportato alla mente del nonno gli anni che ha trascorso lontano da casa e dagli affetti a causa della guerra. Tra le mani ha una cartolina speditagli da noi nipoti da El Alamein. Caro nonno, siamo qui di fronte al sacrario di El Alamein scorriamo le centinaia di nomi dei caduti, tra questi sicuramente c'è qualcuno che hai conosciuto. Nell'aria risuonano ancora le note della canzone dedicata ai soldati di tutto il mondo caduti in questa battaglia:
«C'è una croce laggiù nel deserto,
che ricorda i nostri soldati;
una croce al loro valore,
della patria ai suoi figli
caduti ad El Alamein!
C'è una croce simbolo santo...
perché santo è il soffrire
di color che han dovuto morire
ad El Alamein».
Siamo qui nei luoghi che molte volte abbiamo immaginato quando da bambini ti chiedevamo di raccontarci le «storie sull'Africa»... Una cartolina questa volta dai luoghi della memoria ed è così che i pensieri del nonno lo riportano a quel giorno del 1942 quando fu fatto prigioniero.
«La battaglia iniziò il 23 ottobre e terminò il 6 novembre, giorno in cui mi fecero prigioniero. Dopo due giorni sotto i bombardamenti dell'aviazione inglese il mio reparto era allo stremo, eravamo assediati, la nostra sorte si fece sempre più incerta. Il 6 novembre ci arrendemmo ad un gruppo di soldati di colore comandati da un sergente inglese; prima di consegnarmi a loro indossai la divisa coloniale, la stessa che ci era stata fornita per sfilare al Cairo davanti al duce. Avremmo dovuto raggiungere Alessandria a piedi, ma il nostro comandante Cominelli fece sì che potessimo usare i nostri mezzi. Di notte lungo il tragitto le truppe coloniali fecero razzia e ci derubarono di ogni cosa.
«Trascorremmo due giorni ad Alessandria e poi fummo trasferiti su un merci a Suez, fui internato in un campo col numero 310, fui rinchiuso in un gabbio con altre 1.200 persone, ogni sera ci contavano: fu così che iniziò la mia vita da prigioniero, sempre più lontano dall'Italia, disperato e felice al tempo stesso: non ero stato ferito e non ero morto come molti miei amici. Nel campo imparai a leggere il francese, ogni dieci giorni quando facevamo la spesa al chiosco, a turno comperavamo il giornale, costava una piastra, l'equivalente di una lira, era la nostra paga giornaliera. In quell'occasione tutti si riunivano intorno a me mentre leggevo le notizie dal mondo sullo svolgimento della guerra fino alla sua conclusione.
«La guerra era finita da oltre un anno, ma noi eravamo ancora impiegati in ogni sorte di lavoro, decidemmo di scioperare, ci opponemmo ai nostri aguzzini, ma non ci fu nulla da fare: non c'erano mezzi per rimpatriarci; a malincuore ci rassegnammo al lavoro. Avevamo diritto ad uscire dal campo, ma era troppo pericoloso; fu solo nel Natale del 1945, quando ci diedero tre giorni di permesso, che visitai Gerusalemme e i luoghi santi. Trascorsero ancora lunghi mesi di prigionia quando finalmente arrivò, a metà giugno, l'ordine di partire per Port Said. Sbrigate alcune formalità ci imbarcammo per l'Italia facendo rotta verso Napoli. Finalmente libero dopo 44 mesi di prigionia; libero e felice di poter riabbracciare mia moglie e abbracciare per la prima volta mia figlia».
Questo scritto vuole essere un omaggio ai nonni che il destino ha più volte diviso mettendoli a dura prova, ma la speranza di potersi riabbracciare li ha aiutati a sopportare la sofferenza e il dolore di una lunga separazione. Auguri nonni! E che la vita vi riservi ancora tanta felicità e la gioia di stare insieme.
I vostri cari

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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