Una campanellad’allarme che aiutila scuola a cambiare

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S ono una ex studentessa del liceo «Calini» e ho scelto di scrivere questa lettera perché vorrei raccontare come ho vissuto io l’esperienza delle superiori, dato che, come le iscrizioni di quest’anno al mio vecchio liceo sembrano mostrare, si tratta purtroppo di un’esperienza condivisa, più che di un caso isolato. Io ormai ho finito la scuola da quasi due anni, ma ancora non riesco a fare davvero pace con quello che ho vissuto: questo è il motivo per cui ho provato a scrivere. Se penso alle superiori, prima di ricordarmi di qualche risata fatta con i compagni o di qualche momento divertente passato in classe, le prime cose che mi vengono in mente sono le ore infinite passate esclusivamente a studiare, le continue richieste da soddisfare, il susseguirsi costante di verifiche e interrogazioni, la solitudine e le lacrime quotidiane. Le sensazioni legate al triennio sono il senso di vuoto, il sollievo enorme di non dover più affrontare questa esperienza, il dispiacere per essermi sentita tante volte sola e poco capita e, ultimamente, la rabbia. Sono arrabbiata per aver rinunciato a ogni aspetto della mia adolescenza che non fosse la scuola. Le richieste erano talmente tante che dedicavo tutte le mie giornate allo studio: ho smesso di fare gite la domenica, ho smesso di uscire con gli amici durante la settimana e poi anche il sabato sera, ho smesso di prendermi un momento di riposo guardando la televisione e soprattutto, quello che mi dispiace di più, è l’aver rinunciato, dopo dieci anni di gare a livello nazionale, prima a fare agonismo, poi addirittura ad arrampicare, anche solo per passione. La frase che mi ripetevo continuamente era che non c’era tempo. Ho rinunciato a tutte quelle esperienze di crescita che ogni ragazzo dovrebbe poter fare. I miei amici raccontano di avventure e stupidate fatte con i compagni di classe e io non posso che paragonarle con i miei ricordi di giornate tutte identiche passate alla scrivania. Mi sono ripetuta tante volte che, in un momento successivo alle superiori, avrei tratto i benefici del mio impegno e di tutto quello che avevo sacrificato, ma non è stato così. Certo, a confronto con le superiori, l’università è una passeggiata: mi so organizzare benissimo e raggiungo risultati eccellenti agli esami, ma l’atto fisico di studiare si è trasformato in una sofferenza. Sono talmente desiderosa di vivere tutto quello che ho perso negli scorsi anni, che, più volte, il pensiero di mettermi alla scrivania mi fa venire la nausea. Non cedo alla tentazione di smettere di studiare perché non voglio rinunciare alle potenzialità che potrò sviluppare con una formazione proficua. Di questo sono convinta da sempre, anche se non è un valore che ho acquisito durante la scuola superiore. Mi sono sempre ritenuta una persona obiettiva nelle mie riflessioni, quindi riconosco anche la presenza di fattori negativi esterni alla scuola, come la sofferenza generata dalla pandemia, e di fattori positivi ricevuti dalla scuola, come l’acquisizione di un bagaglio culturale più ricco di conoscenze rispetto ad altri. Però nessuno di questi elementi giustifica o legittima il triennio che ho vissuto. Ogni giorno potevo passare i miei pomeriggi e le mie serate a studiare, ma, anche con impegno e costanza, la somma delle richieste da soddisfare era esagerata. Il risultato era che, ogni giorno, quello che facevo non era mai abbastanza, io per prima non mi sentivo mai abbastanza. La frustrazione mi annullava, anche facendo tutto il possibile, avrei sempre comunque dovuto fare di più, essere più brava, fare meglio. Ai miei occhi, le rinunce che facevo diventavano scontate, poco apprezzate e mai sufficienti per le richieste che avrei dovuto soddisfare; in qualche modo non erano più considerate nemmeno rinunce: semplicemente erano il mio dovere, erano la norma. Questo non può essere considerato scuola: la scuola dovrebbe educare e formare persone, ma non posso essere davvero una persona se non ho la possibilità di imparare quanto sia fondamentale il rispetto per me stessa, e, quello che veniva preteso, sicuramente non era funzionale ad ottenere l’autostima necessaria per apprezzarmi e rispettarmi. Ho sempre pensato che, per quanto sia difficile, insegnare significhi, come stabilisce il patto educativo, favorire la realizzazione del percorso di crescita delle persone che si stanno formando. È questo il motivo per cui sono arrabbiata: mi sono stati insegnati un’infinità di contenuti, ma sono stati trascurati i valori che rendono tale una persona. Con questa lettera non cerco una qualche forma di risarcimento, so che non è possibile. Con questa lettera vorrei condividere la mia esperienza per richiamare l’attenzione di insegnanti, genitori e ragazzi. Per me non è stato facile scegliere di scrivere e condividere questi pensieri, ma ho voluto farlo nella speranza che gli studenti che si trovano adesso in una situazione simile a quella che ho affrontato io, sappiano di non essere soli e soprattutto sappiano di avere il diritto di fare scelte diverse da quelle che si vedono imposte. Insomma vorrei essere quel campanello d’allarme, suonato da dentro la scuola, che io non ho avuto, ma avrei voluto: il segnale della conferma che in questi casi cambiare, anche se può sembrare un fallimento e può fare paura, è la scelta giusta da fare perché è volersi bene .
Camilla

Gentile Camilla, mi auguro che l’articolata e in qualche modo serena esposizione dell’esperienza vissuta alle superiori, portando il punto di vista di una studentessa contribuisca alla riflessione più generale che in questi ultimi mesi si è sviluppata sulle diverse situazioni di disagio che si vivono dentro la nostra scuola. Un fenomeno evidenziato dalla punta di iceberg rappresentata da recenti episodi drammatici quali suicidi o aggressioni nei confronti di insegnanti. Non si tratta di puntare l’indice su questo o quell’istituto, su questo o quell’insegnante: non porterebbe a nulla. Piuttosto bisogna impegnarsi a capire i meccanismi che generano le situazioni di disagio. E in tal senso l’ascolto delle voci di studentesse e studenti è sempre un buon punto di partenza. (g.c.)

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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