Tempo di social

Lettere al direttore
Lettere al direttore
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H o già avuto modo di scrivere che mi piace il clima d’osteria, non fosse altro perché dà l’opportunità di confrontare valori e miserie di cui si veste l’uomo. È così possibile fare paragoni (facendo alcuni esempi) con l’abisso che c’è tra l’alta poesia di Leopardi, i contenuti estetici del sommo Leonardo, il pensiero filosofico di Platone... e, in caduta libera, il linguaggio scurrile e la banalità delle affermazioni che si sentono in un bar, di paese o città, indifferentemente. Lo confesso, la tal cosa è, se così posso dire, «istruttiva» nel senso che, frequentando ora una biblioteca ora un’osteria, ci si rende conto delle incolmabili distanze (misurabili in anni luce) che ci possono essere tra un essere umano e l’altro pur essendo della stessa specie. Così è andata per secoli e secoli. Poi ecco la novità squisitamente moderna che da qualche tempo sta mescolando le carte (non quelle della briscola), sta confondendo le idee, creando, se mai fosse possibile più di prima, confusione tra i ruoli e gli ambiti. Prima dello strapotere dei social il mondo dell’osteria rimaneva chiuso tra quelle fumose pareti, così come i comportamenti e le opinioni dei protagonisti. Il loro modo di dire e di fare s’annegava in una bottiglia di vino o qualche bicchierino di grappa dolce o secca. Il tutto si esauriva e si diluiva tra sguaiate risate, senza che fuori la collettività ne uscisse danneggiata. Oggi, e grazie proprio all’avvento dei social-media, quelle parole, quel modo d’essere e di concepire la vita, tipico di legioni d’imbecilli, si diffonde alla velocità della luce in ogni dove, basta dar credito e orecchio all’articolata suoneria di milioni di telefonini che ognuno reca in mano (nemmeno in tasca), ora in quella di sinistra, ora nella destra. Paiono diventati, i cellulari, un’appendice dello stesso corpo, divisibili da questo solo con un’operazione chirurgica o, meglio, con radicale modifica dei comportamenti in auge (in questo caso, però, la vedo difficile...). È quanto meno curioso che nell’era dello strapotere tecnologico, dei satelliti che spiano l’universo mondo e dell’intelligenza artificiale, i linguaggi più «ignoranti» abbiano la stessa diffusione e il diritto di parola del luminare della Nasa, del professore della Sorbona o del Premio Nobel della letteratura. E questa volta arrecando alla collettività un danno incalcolabile!
Gian Mario Andrico

Gentile amico, siamo nell’epoca dell’«uno vale uno», e non nei termini della legittima uguaglianza democratica di fronte alla legge e nell’espressione del voto che certifica la nostra convivenza civile. Ogni affermazione - indipendentemente da competenze e conoscenze di chi la esprime - oggi rischia di venir subito ridotta a «opinione», alla «doksa» degli antichi filosofi greci, ossia una conoscenza basata su una visione soggettiva che non è però in grado di offrire la certezza obiettiva della «aletheia», di ciò che è disvelato (e perciò visibile per tutti): la verità. Lo sdoganamento pubblico dei «discorsi da bar» è avvenuto più o meno quattro decenni fa, sulle tv e non solo su quelle commerciali ma anche con certi programmi che pretendevano prese dirette sulla realtà senza filtri, probabilmente sottovalutando la potenza amplificatrice del mezzo di comunicazione di massa. Certo, si voleva andare oltre la tv pedagogica e compassata di un tempo. Ma una volta evocato, liberato ed avvallato, quel linguaggio è dilagato trovando poi, oggi, un brodo di coltura formidabile nei social. Ora si potrebbe dire: bene, è l’ora di far rientrare il «genio» seminatore di zizzania nella lampada da cui l’abbiamo fatto uscire. Ecco, il problema di cui per ora nessuno, mi pare, stia trovando il bandolo, è proprio questo: come restituire e riconoscere al linguaggio una disciplina e un valore nella trasmissione di saperi e conoscenze, e nella distinzione dei contesti in cui le parole si pronunciano. Chissà, forse, lo si potrà fare ipotizzando - con una battuta - di tornare a frequentare di più i bar e meno i social. (g.c.)

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