Sergio Marchionne: la solitudine finale del grande manager

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Da alcuni giorni la notizia prima dell’uscita dal gruppo FCA e poi della morte di Sergio Marchionne sta sconvolgendo il panorama economico italiano e internazionale. Più che per ragioni economiche sono molto colpito dall’aspetto umano. Sono commosso, triste, pensieroso perché trovo tutto ciò come un’ingiustizia verso una persona che ha dedicato la notte e il giorno per non fare fallire un’azienda oramai morta e che ha saputo rilanciare l’industria automobilistica italiana portando benefici all’intero Paese. Mi ricordo quando 25 anni fa arrivando a New York, Caracas, Dubai, Singapore, Toronto, Madrid, Parigi, Londra... capitava che parlando con i miei clienti a volte si toccava l’argomento automobili e dopo un bel «wow» sulla Ferrari, cadeva il silenzio sulla Fiat. Tutti con occhi ironici a rilanciare il solito ritornello «Fix It Again Tony (Fiat)» dove Tony era il meccanico italo-americano che doveva mettere le mani sull’ennesima rottura di un’auto Fiat. Finché si parlava di moda, di architetti, di pittori rinascimentali il bel Paese era lodato ma quando si discuteva di Fiat c’era da tapparsi le orecchie per le battute ironiche e talvolta feroci che venivano fatte. Ovviamente cercavo di difendere a volte l’indifendibile da buon patriota. Ma... l’avvento di Sergio Marchionne nel 2004 ha cambiato il nostro modo di pensare o almeno lo spero. La passione, l’intelligenza, la tenacia, la dedizione di quest’uomo mi ha spinto ad essere orgoglioso del mio Paese. Gli stessi miei clienti (che spesso sono anche amici) di fronte ai risultati ottenuti, ai miglioramenti qualitativi ed estetici dei prodotti, alle riorganizzazioni delle aziende (incluso l’ambiente dei lavoratori con nuove mense, posti di lavoro più efficienti, ambienti non più legati alla figura del padrone e dell’operaio ma di un team pronti a remare tutti dalla stessa parte), hanno cominciato a rivalutare la Fiat e i suoi prodotti rimanendo affascinati da quest’uomo che non metteva la cravatta pare per non perdere tempo a fare il nodo ma credo fosse più per sentirsi alla pari con gli altri perché ricordava spesso che «dobbiamo essere giudicati per quello che facciamo non per come vestiamo». È l’aspetto umano che mi ha colpito di questa storia dove noi italiani spesso ci facciamo del male da soli non sapendo riconoscere i meriti e i successi a chi è più capace di noi. Vedendo la sua ultima apparizione pubblica del 27 giugno per la consegna di una Jeep Wrangler al comando dei carabinieri della costa romagnola, si vede un uomo provato, che sussurra a fatica le parole che emanano un senso di solitudine e malinconia. Parole fuori dagli schemi come quando si rivolge al cane lupo dell’Arma ricordando con orgoglio che lui è figlio di un maresciallo dei carabinieri ed esaltando l’Arma con quella semplicità e rispetto quasi in tono reverenziale (lui che con Obama e Donal Trump trattava alla pari) verso le istituzioni e il suo Paese. È stata la sua ultima apparizione pubblica e l’ha voluta fare non di fronte a un consiglio di amministrazione o ad un convegno internazionale sul lago Maggiore, ma ritornando alle sue origini e al suo rapporto con suo padre, maresciallo dei carabinieri come per ricordagli quanto il suo insegnamento, la sua onestà, il suo senso per le istituzioni siano state fondamentali per la sua carriera, per la sua coscienza. Grazie Sergio!

// Angelo Dallera
Brescia

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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