Sequestro e tortura Il delitto di Gavardo diventi un monito

Siamo un gruppo di lettrici che desidera scrivervi in merito all’evento criminale di inaudita ferocia consumatosi a Gavardo, dove una donna è stata vittima di sequestro, tortura e violenza sessuale prolungata. La dinamica dei fatti - l’isolamento in una villa, la somministrazione coatta di stupefacenti, il ciclo di sevizie disumane, il ritrovamento finale legata e in stato di incoscienza - evoca una regressione storica e morale che impone riflessioni profonde sulla nostra società. Questa è l’epifania di una violenza di genere che, per la sua sistematicità e crudeltà, deve essere qualificata come tentato femminicidio. La metodica brutale impiegata dai carnefici infatti non mirava soltanto alla violenza sessuale, bensì al totale annichilimento della persona, all’affermazione di un dominio assoluto tale da preludere logicamente all’omicidio. Viene automatico fare un parallelismo che non può lasciare indifferenti: le somiglianze con il delitto del Circeo - la reclusione, la tortura di gruppo, la depersonalizzazione della vittima - sono la prova della persistenza di una mentalità predatoria che continua a vedere il corpo femminile come territorio di conquista e impunità da oltre cinquant’anni. È però altresì preoccupante che, come spesso accade, venga posta un’enfasi indebita sul fatto che la vittima svolgesse la professione di escort. Questa scelta non è neutrale: è intrisa di un pericoloso pregiudizio sessista. Il corpo delle donne è, da sempre, un corpo politico. La violenza perpetrata su di esso è un messaggio di potere rivolto all’intera società. Specificare la professione della vittima significa applicare un pregiudizio e, di conseguenza, suggerire che a causa della sua professione la vittima si sia esposta a un «rischio accettabile», garantendo in automatico un’attenuante alla mostruosità subìta. Si commette un duplice errore etico: si assolve implicitamente la brutalità degli aggressori e si viola il principio fondamentale dei diritti umani, che sono e devono essere inviolabili. Ricordiamo che il diritto all’integrità fisica e psicologica, il diritto a non subìre torture, il diritto alla libertà personale e alla dignità sono universali e inalienabili, e non possono in alcun modo essere condizionati dallo status sociale o dalla professione. La narrazione di questa e di tutte le violenze di genere deve essere incentrata sulla responsabilità penale e morale degli aggressori, e sul pieno riconoscimento dei diritti e della dignità della vittima. Solo così potremo contribuire a smantellare la cultura che rende possibili e addirittura cerca attenuanti ad atti di tale barbarie. Il delitto di Gavardo è un monito: la battaglia per l’uguaglianza e contro la violenza non è vinta. È tempo di chiamare le cose con il loro nome, per onorare la dignità calpestata di questa donna e di tutte le vittime.
Giada VincenziCara Giada, nel risponderle camminiamo su gusci d’uovo, poiché su certi argomenti è arduo intendersi e facile esser fraintesi. Cominciamo dal punto comune: la condanna di quel fatto, senza se e senza ma. Di più. La volontà di eliminare la cultura che fa da terreno fertile per simili atti criminali. Affinché ciò avvenga dobbiamo evitare l’introduzione di attenuanti e di elementi di giustificazione all’uso della violenza e al mancato rispetto della dignità altrui (molti autori - ne citiamo uno su tutti, Emmanuel Lévinas - hanno indagato a fondo questi aspetti, sottolineando come certe aberrazioni scaturiscono proprio dal considerare «l’altra» o «l’altro» come puri corpi, spersonalizzandoli). Per cambiare la cultura però, come del resto riconosce lei, occorre «chiamare le cose con il loro nome». E qui inizia il difficile, soprattutto per chi fa il nostro mestiere. Perché da un lato si richiede verità, chiarezza, dall’altro omissione (nel caso specifico, non nominare la professione della vittima). Senza ostinazione, né saccenza, il nostro pensiero è che se davvero si vuole cambiare una «cultura» non dobbiamo omettere né edulcorare nulla, così come mettervi enfasi, stando attenti nell’uso delle parole, per non prestare il fianco a fraintendimenti o strumentalizzazione. (g. bar.)
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