Secoli di storia dietro l’arte di fare il salame
Così come il formaggio era un sistema per conservare il latte, il salame e le carni insaccate in genere sono state, per secoli, il modo per conservare la carne, soprattutto per il periodo invernale. Ma, mentre il formaggio si è prodotto, per lo più, in strutture artigianali, per la maggior parte esterne all’azienda agricola, il salame è stato, fino a pochi decenni fa, un prodotto della famiglia contadina. Nei secoli passati e fino al secolo scorso, in tutte le cascine, in primavera-estate, si allevava il maiale per trasformarlo, poi, in autunno, in salami che venivano consumati nei mesi dell’inverno-primavera successivi. Nella tradizione alimentare della Pianura Padana il salame fatto in casa è stato, per secoli, l’unico modo per avere gustosa carne di maiale per il periodo invernale. Trascorso San Martino, con l’arrivo dei primi freddi che spazzavano via le ultime mosche, nelle zone rurali si procedeva alla macellazione del maiale (copà el porsel). All’evento partecipava tutta la famiglia che assisteva, nelle operazioni di macellazione e insaccamento, il lavoro del norcino (el masadùr). Nulla andava perso. Persino le ossa di risulta venivano messe sotto sale e conservate per essere lessate nelle settimane successive e rappresentavano un succulento pranzo successivo. Nei cotechini finivano, appunto, le cotiche e le parti più grasse del suino. Tutto il resto, tolte 4 coppe e due pancette, veniva lavorato in una vasca di legno, «el meset» e diventava salame. Anzi prima diventava «el pisteum». E qui sta il segreto del salame bresciano fatto secondo tradizione: venivano utilizzati tutti i tipi di carne del maiale (cosce, spalle, filetto, lonza ecc.) per produrre il prezioso insaccato, a differenza di altre zone in cui, ad esempio, le cosce venivano usate per il prosciutto. La mescolanza di tutti questi tipi di tagli di carne dava un gusto e un sapore del tutto particolare. Al termine della giornata, le «budella» insaccate venivano «cucite e chiuse» da abili e veloci massaie, legate con lo spago diventavano, finalmente, salami. Appeso a sostegni in legno, «le pèrteghe», e sistemato sopra la stufa a legna, prima di essere trasferito in un luogo fresco ed asciutto, il complesso degli insaccati «el baldachì», stazionava un paio di giorni ad asciugare al tepore del fuoco della cucina. Compreso il cosiddetto «salam del batèss» , il salame del battesimo, lungo circa il doppio degli altri, che veniva insaccato utilizzando il cosiddetto budello «gentile». Essendo tale budello molto grasso ne consentiva una conservazione superiore. «El salam del batèss» sarebbe stato l’ultimo salame consumato, nel caso il battesimo non fosse arrivato. Queste tradizioni alimentari caserecce di sopravvivenza, si sono trasformate, oggi, in prodotti agroindustriali di largo consumo: i prosciutti di Parma e San Daniele, la Coppa di Piacenza, la mortadella di Bologna, il salame di Felino e così via. Il salame bresciano non ha avuto la stessa fortuna. Eppure migliaia di persone per secoli hanno prodotto e consumato questo salume che è diverso da quello mantovano e quello cremonese. Purtroppo, oggi, nessun salame di produzione agroindustriale viene fatto secondo questa ricetta tradizionale. Né tantomeno esiste un capitolato che lo ricordi (DOP o IGP che sia). Due parole sui «masadùr». Erano delle specie di sciamani, rispettati, apprezzati e ricercati da un anno con l’altro. Contadini che per tradizione familiare conoscevano i principi della macellazione del suino: quantità di spezie e di sale da usare, come legare i salami, come forarli. Erano noti soprattutto con il loro soprannome, «el scheteum».
// Ludovico GuarneriGhedi
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