Se ad abbandonare sono anche gli insegnanti

Lettere al direttore
Lettere al direttore
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Ho 34 anni, laureata alla Cattolica di Brescia in Filologia Moderna con Carla Bino, tuttora mia amica e mentore, dodici anni fa intraprendo la mia carriera come insegnante, inizialmente attraverso «Messa a disposizione» ed inizia la mia gavetta: all’asilo nido, alla primaria e successivamente dopo quattro anni vengo chiamata da Graduatoria di istituto dal Meneghini. Vi racconto la mia storia, assunta a novembre 2021 mi viene fatto un contratto ogni 15 giorni: quando mi presento al patronato per la Naspi con più di dieci contratti, loro stessi mi chiedono basiti quanto sia normale che una docente per ben dieci volte abbia dovuto firmare un contratto senza la minima certezza se avesse potuto continuare o meno, se rifiutare o accettare altre proposte da Graduatoria d’istituto. L’ansia perenne l’ho sconfitta pensando che tutti i sacrifici miei e dei miei genitori un giorno sarebbero stati ripagati e con il mio mantra: «Diventi adulto quando non sai bene per quale motivo ti alzi alle 6, ma ti vesti e lo fai comunque». Con tale contratto ricevo una Naspi minima, tanto che dopo due lauree e due master devo chiedere aiuto ai miei genitori. In tutta Europa si chiedono perché i «millennial» italiani vivono ancora con i genitori, la risposta ve la do io. Graduatorie provinciali: più volte il mio punteggio è stato errato e quando dico errato intendo molti meno punti rispetto ai titoli previsti dalle Gps. Rinuncio così alle mie vacanze al fine di contattare il provveditorato di Brescia, il quale non mi ha mai risposto, sicché mi sono ritrovata con punti in meno senza risposte: abbiamo un Ust che non esiste, o meglio, esiste quando c’è da togliere e non da dare, quando c’è da «punire» dopo meticolose attenzioni per depennamenti, trasferimenti e punteggi. Preferisco fermarmi qui e annunciare come sia stata ripresa innumerevoli volte dalla dirigente scolastica. Motivo? «Non dia voti bassi perché così avremo meno iscritti». Dopo dodici anni di insegnamento capisco gli studenti che abbandonano la scuola. Anche io docente, decido di abbandonarla. A marzo di questo anno iniziano i primi sintomi da stress da lavoro: oltre traumatico abbassamento del tono dell’umore e l’apatia, si fanno presenti sintomi fisici: febbre ogni settimana, gastrite, orticaria. Come se non bastasse un giorno al cambio dell’ora inizio a chiacchierare con una ragazza della mia età del personale Ata. Mi racconta che a dicembre è stata assunta tramite i fondi del Pnrr. Anna è siciliana, non trova lavoro al suo paese ed è costretta a trasferirsi al Nord, siamo a marzo, non prende lo stipendio da quando è qui, ha 400 euro di affitto da pagare, mette da parte ogni spicciolo almeno per riuscire a fare una pasta in bianco. È Natale, Anna è sola, i prezzi dei voli per il Sud «incredibilmente» nelle festività aumentano, quindi resta qua, sola. Ogni giorno vedo e sento parlare di «precari», ma questa parola sapete davvero cosa è? È chiedere a 34 anni 50 euro a tua mamma perché non riesci a fare la spesa. D’altronde è il prezzo che ci vuole per lavorare solo 18 ore a settim ana e fare tre mesi di vacanza. E questa è solo una parte.
Denise Annamaria Boniotti

Cara Denise,

non siamo giudici e nemmeno vogliamo avviare un’istruttoria che contempli torti e ragioni in merito alla vicenda personale.

Ci sono storie per le quali occorre fermarsi sulla soglia e coglierne il senso profondo, al di là dei dettagli.

La sua e quella di Anna sono senz’altro tra queste e interrogano noi sul ruolo che nel nostro Paese ha l’istituzione scolastica e sul precariato come forma di esistenza.

Precàrio: «incerto, non sicuro, soggetto a subire da un momento all’altro un cambiamento, un peggioramento». Dal latino «precarius»: ottenuto con preghiere, concesso per grazia.

Una società, la nostra, che vi si sta adattando, non soltanto per quanto concerne la scuola. Qualcuno affonda, qualcun altro - ed è il vero miracolo - resiste, vi si abitua, riesce a rimanere a galla. Alla lunga, però, come prospettiva, cosa comporterà sulle attuali generazioni non possiamo prevederlo. Perciò, da cronisti, ci limitiamo alla narrazione quotidiana, tra i sommersi e i salvati di questo tempo senza certezza alcuna, mettendoci nei panni suoi e di Anna, senza alcuno scrupolo a chiamarla con il nome che ha: un’ingiustizia. (g. bar.)

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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