Sanitari e pazienti Un’alleanza in cui sperare

Lettere al direttore
Lettere al direttore
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Giovedì scorso, alle otto del mattino, sono andata al Pronto soccorso degli Spedali Civili di Brescia perché da qualche giorno nell’alzarmi dal letto e muovere il collo per compiere movimenti quotidiani la testa mi svaporava via come quando sali (o anche scendi) sulla ruota gigante del luna park - che poi dopo ti sembra di galleggiare in assenza di gravità come gli astronauti con una gran nausea e confusione negli occhi e nella mente, e non vedi più le cose come le vedevi prima. Pare che si chiami vertigine parossistica posizionale benigna, un banale fastidioso disturbo che mi sentirei di consigliare a tutti e tutte almeno una volta nella vita - che perdere per qualche giorno l’equilibrio, l’orientamento abituale e lo sguardo stanco e distratto che diamo sempre per scontati in fondo forse è anche un’esperienza in qualche modo illuminante e istruttiva. Il personale sanitario che mi ha accolto al Pronto soccorso è stato molto gentile, i tempi di attesa per la valutazione dei miei disturbi più che accettabili, l’assistenza iniziale del tutto adeguata. Dopo la prima visita in Pronto soccorso sono stata trasferita presso gli ambulatori dell’otorinolaringoiatria, dove un medico mi ha sottoposta alle manovre necessarie per ritrovare equilibrio e lucidità, riposizionando correttamente alcuni piccoli cristalli chiamati otoliti - che se ho ben capito pare alberghino da sempre (ingiustamente ignorati) sul fondo delle nostre orecchie. Siccome in quel momento l’ambulatorio contrassegnato come unità vestibolare era occupato, mi ha accompagnato in un’altra saletta quasi in fondo al lungo corridoio, dotata della strumentazione necessaria e al momento libera. Dopo la manovra il medico mi ha raccomandato di rimanere sdraiata e ferma per alcuni minuti ed è uscito dall’ambulatorio. E non è più tornato. Essendo una persona tendenzialmente disciplinata, io non mi sono più mossa da lì per almeno un’ora, finché un medico, che doveva utilizzare lo stesso ambulatorio con un altro paziente, mi ha aiutato a scendere e mi ha premurosamente accompagnato in corridoio sulla sedia a rotelle. La faccio breve, sono rimasta ore, sostanzialmente dimenticata. Ad un’ultima dottoressa che mi ha visitato vorrei rivolgere sinceramente le mie scuse, perché a quel punto oltre che molto stanca ero arrabbiata e sono stata sgarbata. Pur senza insultarla ho alzato la voce più volte e non mi sono nemmeno preoccupata di ascoltare quello che mi diceva. Mi sono scusata nell’andare via, ma ci tengo a scusarmi di nuovo. Con me, a ben pensarci, nel corso dell’intera giornata nessuno tra il personale medico si è mai esplicitamente scusato. Nessuno mi ha detto di essere dispiaciuto. Quando sono tornata a casa però mi è venuto da pensare a un mio ex fidanzato, che ho frequentato per tanti anni quando ero giovane. Che lui adesso (come me del resto) non è più tanto giovane però ha un sacco di diplomi di laurea e anche un dottorato in antropologia. E ormai tanto tempo fa mi aveva raccontato che una volta l’antropologa delle antropologhe, Margaret Mead, a chi le domandava qual e fosse il primo segno di civiltà nella lunga storia culturale dell’uomo ha risposto che secondo lei quel segno, in una civiltà antica, lo si poteva vedere in un femore rotto e poi curato. E a me era sembrata davvero una risposta bellissima, che uno dei fondamenti della civiltà stesse nella capacità e volontà umana di prendersi cura, riparare, permettere a un altro uomo o donna di rimettersi in piedi e camminare di nuovo dopo una caduta. Non ci avevo mai nemmeno veramente pensato prima, che la medicina e i medici fossero un elemento cardine, anche simbolico, della nostra civiltà. Come hanno dimostrato anche recentemente, durante la pandemia. Che se gli altri si dimenticano di te quando sei in salute e ti stai facendo i fatti tuoi può essere anche una benedizione - ma se si dimenticano di te quando non ti senti tanto bene non fa mica poi tanto piacere. Figurati allora come dev’essere quando si dimenticano di te - o ti escludono, o ti colpevolizzano, o ti rinchiudono, o calpestano i tuoi diritti, o ti umiliano, o ti annientano - magari perché sei straniero o perché sei povero o perché sei donna o perché la pensi o agisci diversamente. Credo anche che probabilmente lei (l’antropologa delle antropologhe) oggi sosterrebbe a gran voce le sacrosante rivendicazioni delle donne e degli uomini che operano nella sanità pubblica e chiedono condizioni di lavoro e salari più giusti, risorse e strutture adeguate, garanzie per la propria sicurezza personale e rispetto. Se poi oltre a tutto questo le persone che lavorano nella sanità pubblica si preoccupassero anche di costruire un’alleanza e un dialogo reale con i propri pazienti (persino nella logorante e ripetitiva pratica quotidiana), questo sarebbe un altro piccolissimo ma bellissimo segno di civiltà - in un mondo che ogni giorno di più sembra essere senza speranza.
Alessandra Rocchi
Collebeato

Cara Alessandra,

è raro che vengano pubblicate lettere lunghe quanto la sua, che pur abbiamo provveduto a ridurre di un terzo. Facciamo eccezione oggi, poiché leggendola ci siamo appassionati, della forma, più ancora che della sostanza. Nel merito infatti non ci dice nulla di nuovo, confermando i chiaroscuri della nostra sanità e il parere che la differenza la fanno sempre le persone. Il suo modo di raccontarlo, tuttavia, ci ha fatto prima leggere d’un fiato e poi rileggere, con gusto, apprezzandone la lievità dei toni, l’ironia che non sfocia nel sarcasmo, i riferimenti colti ma non pedanti, la sottolineatura di alcune ovvietà senza però ruzzolare nella retorica. Un narrare «in punta di penna», come si diceva un tempo, che soprattutto ha un pregio: profuma di bucato. Un candore che non toglie nulla alla lucidità di analisi e che dà speranza. Proprio per questo merita di esser condiviso. Grazie. (g. bar.)

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