Quel viso pallido e spaventato di chi uccise il padre
Una macchina della polizia, una camionetta dei carabinieri, si fermarono nel cortile di mio nonno. Noi ragazzini, tutti a correre verso quei lampeggianti luminosi. Ci fermammo sulla soglia del cancello, incuriositi da tutti quegli uomini in divisa. Dopo pochi minuti arrivò anche la macchina delle televisioni Rai. Cosa stava succedendo a Graticelle? Ci sentivamo eccitati, come se stessimo partecipando ad una serie tv. Gli ingredienti c’erano tutti: le forze dell’ordine, la televisione, i giornalisti. Tutto quel trambusto ci fece dimenticare il vero motivo di quella che per noi era una meravigliosa rappresentazione. Bastò lo sguardo di mio nonno a riportarmi con i piedi per terra. Rientrai a casa, mi sedetti sulla poltrona con lo sguardo rivolto a terra. Mi sentivo tremendamente in colpa, non so per quale strano motivo mi vergognai. Ricordavo quel ragazzo, timido all’inverosimile, non lo sentii mai pronunciare una parola; ogni tanto giocava con noi a «guardie e ladri». Si nascondeva così bene, ricompariva dopo ore quando il gioco era finito. Scappava sempre senza salutare, sembrava un essere invisibile, faceva di tutto per non farsi notare, qualcosa che andava al di là della semplice timidezza. Suo padre era stato ucciso con una fucilata alle spalle sulla porta della stalla. Rimasi basito a quelle parole di mio nonno. Ha confessato subito il figlio «so stat mè, ghè la fàe piö». Un figlio che uccide il padre, mi sembrava fantascienza. Una storiaccia delle nostre valli che mi è rimasta appiccicata dentro. Un padre padrone violento nei confronti dei figli e della moglie. Qualche tempo fa mi trovavo in un garage di moto di un mio caro amico. L’ho rivisto quel ragazzo ormai uomo, sempre uguale: timido, gli occhi rivolti a terra, biascicava qualche parola incomprensibile. Il volto impaurito, rassegnato, spaventato, occhi imprigionati dalla paura di chi nella vita ha sempre solo sofferto. Io, come al solito, ho capito troppo tardi. I giudizi, le parole, bolle d’aria che si perdono nella vastità del cielo. Lo sguardo severo di mio nonno l’unico vero insegnamento.
// Renzo CominassiIseo
Ricordo anche io, all’epoca giovane cronista. E come lei ricordo quel viso pallido e spaventato, che stonava con la possenza del fisico. Era la prima volta che mi capitava di dover raccontare una storia di violenza consumata tra le mura domestiche e subita in silenzio, fino alla ribellione estrema. Non ho mai smesso di sentire l’inadeguatezza della cronaca, anche se fatta in punta di piedi, rispetto a tragedie così grandi. (n.v.)
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