Quel ricordo che aiuta a trovare la forza di vivere

AA
Sopravvivere alla morte di un figlio/a è come morire lentamente. Non ci si abitua mai, ma ci si può raccontare. «Mio figlio è morto due anni fa, ma il pigiama è ancora sotto il cuscino del suo letto...». «Mia figlia, è morta da quattordici anni, ma i suoi vestiti sono ancora dove li aveva lasciati». «Non posso averlo perso così, lui non si sarebbe mai allontanato da me per sempre, senza salutarmi, e quella sera l’ho sentito passare davanti alla mia stanza mentre raggiungeva la sua e non è entrato. Non aveva certo l’intenzione di farsi del male, altrimenti sarebbe venuto a darmi un bacio, sia pure dell’addio. Sarà partito per un breve viaggio e tra un po’ tornerà a casa, perciò non posso muovermi, altrimenti non mi troverà». «La notte in sogno incontro mia figlia. È serena, solare, bellissima. Io le parlo, lei mi guarda, so che morirà, ma voglio che sia felice nei suoi ultimi istanti di vita». «Sogno mio figlio tutte le notti, e ogni volta non voglio lasciarlo uscire di casa perché so che non tornerà, ma lui insiste per andare e io... non posso fermarlo. Ogni notte è un addio». «Vado a letto presto sperando di ritrovare il calore del corpo del mio bambino che spesso dormiva con noi nel lettone. Ho bisogno di cercare quelle emozioni per continuare a vivere». «Ma a chi è venuto in mente che i mesi dell’anno non debbano avere tutti trenta giorni? Perché qualcuno ne ha trentuno? È una cosa che mi manda in bestia, perché se anche quel maggio ne avesse avuto trenta, io starei ancora con la mia principessa, è quel giorno in più aggiunto da chissà chi, che me l’ha rubata!». «Vedete il tatuaggio che mi sono fatto sul braccio? È il nome di mia figlia, ma quando ho sentito cosa si prova a fare un tatuaggio, un po’ alla volta mi sono tatuato tutto il corpo, nomi, date, frasi, disegni tutte cose che facevano parte della sua vita. Perché l’ho fatto? Perché voglio provare dolore, ogni volta di più, voglio provare sempre, per tutta la vita, quel dolore che deve aver provato mia figlia, quando si è trovata sopraffatta da quel camion e forse mi ha chiamato... e io ...non c’ero...». «Si, mia figlia ha donato gli organi, ma che importa? Io rivolevo indietro i suoi capelli, lunghi, neri, bellissimi che i medici hanno frettolosamente tagliato nel tentativo di portarle soccorso. Io li ho visti sul pavimento, quelli erano miei, perché non me li hanno ridati?». «Grattare la porta del cielo, per cercare di riavere mia figlia, questo vorrei poter fare, rivederla anche solo per un momento e poi... morire... invece non riesco nemmeno a sognarla e il mio cielo di notte resta sempre più buio e quando mi affaccio perché non riesco a dormire, vedo piccole luci tremolanti e non so se sono le stelle o le mie lacrime e, nel mio cuore distrutto, c’è solo l’eco di un urlo senza fine, un urlo di rabbia verso Dio, di disperazione, di solitudine e non riesco più nemmeno a piangere». «Io ho perso mia figlia per suicidio a ottobre, aveva compiuto diciotto anni da pochi giorni. Oggi dopo sette mesi e nove giorni, posso affermare che non ho più paura della morte, forse perché è l’unico modo per rivederla e riabbracciarla». La domanda resta sempre la stessa: «Perché a mia figlia, perché lei non può più vivere la sua vita come tutte le sue amiche, perché tutto questo?». «Nel mio cuore c’è una croce piantata così profondamente da sentirmi sempre un dolore profondo, senza fine, come lo stilicidio di sangue dalla croce di Gesù Cristo e, se anche parlo con tutti, lavoro, rido, faccio mille cose, è come se fossi sdoppiata e la parte di me che è la sua mamma è sempre là, in ginocchio sulla sua tomba, e l’altra parte di me, un’estranea, che continua a vivere senza di lei, a fingere di essere viva e impegnata è solo un’ automa che vive senza vita, che respira, pensa, ma aspetta solo di ricongiungersi con lei, rivedere i suoi occhi ridenti, il suo sorriso, riabbracciarla e finalmente trovare... la pace». Sono parole strazianti, che ti strappano il cuore, quelle dei genitori che hanno perduto i loro figli, in incidenti stradali, come quelli che avvengono soprattutto nei fine settimana, per malattia, qualche volta a causa di un suicidio. Questi uomini e queste donne, si incontrano e si raccontano, e ogni volta sono storie, emozioni, drammi e lacrime condivise, lì si può comprendere quanto può essere immenso, complesso, stratificato il dolore di un genitore che sopravvive al proprio figlio. I genitori si scambiano esperienze, piangono insieme e insieme gioiscono se qualcuno riesce a sorridere per un solo attimo, sui visi scendono lacrime calde. Le lacrime versate sia per i nostri figli che per i figli degli altri non sono state inutili, hanno creato tra noi genitori un legame che difficilmente potrà essere scisso. Questi genitori di volta in volta possono sostenerti, appoggiarti, supportarti e coraggiosamente tutti insieme, ognuno con il proprio fardello possono dire «si, ce la possiamo fare». I figli, i nostri figli, sono con noi ovunque noi siamo, il loro cuore è nel nostro cuore e nessuno ce lo potrà togliere, almeno fino a quando il nostro cuore avrà battiti e forza e coraggio per accettare. L’esperienza del «gruppo» di genitori diventa di fondamentale importanza nell’elaborazione del lutto, soprattutto nel cercare di reagire nel modo più positivo possibile di fronte a una realtà così estrema. Anche se sembra una frase fatta, i figli che la vita prima ci ha dato e poi così dolorosamente ci ha tolto devono essere vissuti nel tempo come un dolce ricordo. Ciò che abbiamo perduto nessuno ce lo potrà restituire e noi non riusciremo a dimenticare, ci saranno sempre e comunque momenti di intensa nostalgia, ma dobbiamo fare in modo che diventi e rimanga solo «intensa nostalgia». Altre realtà ci attendono, talvolta anche altri figli, costretti a vivere con sofferenze la perdita di un fratello o di una sorella e a subire, senza colpa le conseguenze di una quotidianità dolorosa in cui noi genitori siamo spesso fortemente inadeguati e di cui ci sentiamo altrettanto responsabili. A loro che ci sono vicini, dobbiamo pensare con forza e coraggio senza lasciarci condizionare dai rimpianti, cercando di aiutarli a proiettarsi verso il futuro, il loro futuro. Ciò diventa possibile solamente se noi riusciamo a superare la disperazione e la rabbia, anche la paura, arrivando ad accettare la morte di un figlio come un «evento naturale». A chi ci ha lasciato, ai figli perduti possiamo solamente sorridere da lontano, accompagnando le nostre fantasie al desiderio di ritrovarli accanto e intorno a noi, chissa magari in una coccinella o in una nuvola o in una farfalla... d’altro canto, perché porre limiti ai nostri desideri o ai nostri sogni! La forza della vita è anche questo. // La mamma di Diletta

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