Quanta genuinità nella via Milano degli anni Sessanta

Ho ormai passato i settanta ma via Milano è impressa in me, come nel cuore della grande Elisabetta d’Inghilterra era scritto Calais. Via Milano è la Brescia dei miei tempi, degli anni ’60; modesta e lavoratrice, operaia, commerciale e artigiana, assai polverosa e trasandata, cioè bellissima. Giusto attaccata alla fabbrica chimica della Caffaro, col suo chilometrico muro rosso, al n° 35 aveva l’officina il mio papà, proprio in mira alla bottega del pelatissimo merciaio che aveva fatto la Russia, e quindi detto Riccioloski. Sull’antico cortile sterrato, straunto e incastonato di luccicanti bulloni spannati, signoreggiavano l’elettrauto Breda, il meccanico Rocchi, il marengone Stoppani e il saldatore Costa. Nello stesso attempato casone, ma con affaccio su via Milano, stava il lustrone di mobili di cui ho dimenticato il nome. Ai piani superiori, solcati da oscuri corridoi albergavano famiglie modeste guarnite di numerosa figliolanza. Sgobbavano gli artefici tra macchine e moto, grigi motocarri Guzzi vivi e defunti, carrettini a triciclo, montoni di segatura e grovigli di sfrido, aguzze fiamme azzurrognole, cascate crepitanti di scintille e colate di carburo esausto. Nei cantoni reconditi, pile di gomme e di batterie antichissime a stagionare silenti, in saecula saeculorum amen. E in mezzo («gò mai capìt perché pròpe en mès») era spesso piantata, misteriosa insegna araldica, l’asta di bambù sottile ed eccelsa col posatoio tondo di sughero in cima. D’in su la vetta mi occhieggiava di sbieco, a strapiombo, la civetta del meccanico-cacciatore Dillo Rocchi, immobile e ominosa come sulle dracme di Atene. Paura! In questo luogo fatato fui introdotto bambino al mondo degli uomini, dei maschi che lavorano, ridono, ostiano, riscuotono e ti mandano a comprare le paìne di là dello stradone... «oh, tènto ai càmius neh!». Poi ti pagano cordiali a te, nano, la spuma alla Trattoria degli Amici lì di fronte e ti lasciano le dieci lire. La sera tornano a casa stanchi con la moto o la Topolino e si lavano con l’acqua calda riscaldata nel pentolone dalle provvide mogli. E poi magari le portano anche al cine.
Andrea BredaCaro Andrea, quello dei ricordi è un angolo in cui ci si accuccia volentieri. Con due effetti collaterali, che sovente ne conseguono. Il primo è un contagio. Leggendo le sue, di memorie, si accendono pure le nostre, quelle di ciascuno. Il secondo potremmo chiamarlo «detersivo», nel senso che il trascorrere del tempo monda le reminiscenze del peggio, dipingendo a colori nitidi il meglio. Così, chiudendo gli occhi, pare anche a noi di vederla, la via Milano di allora, accanto alle vie, ai quartieri, ai borghi, ai paesi in cui la nostra giovinezza ha abitato. È proprio vero che si torna sempre dove siamo stati felici, anche se allora non lo sapevamo. (g. bar.)
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