Pazienti cronici: meno tecnicismi, serve più umanità
La recente approvazione da parte della Regione Lombardia della Delibera 6551 più nota come «presa in carico dei pazienti cronici», con l’introduzione di nuove figure gestionali della cronicità, mi obbliga ad una riflessione di principio. Dall’analisi del testo della delibera e dagli incontri delucidatori avuti ho tratto un elenco della terminologia più usata e ricorrente: «logica di mercato», «logica di consumo», «trade-off», «analisi dell’offerta», «analisi della domanda», «dimensione del gestore», «dimensione dell’erogatore» etc. Il termine «salute» non è mai stato pronunciato e nemmeno il termine «paziente», sostituito elegantemente con il termine «utente» o «fruitore di servizi». In accordo con il semiologo del linguaggio Stuart Chase, so che la parola oltre ad essere mezzo per articolare discorsi, è portatrice in sé di un significato più ampio atto a forgiare una visione del mondo, una «Weltanschaung». Mi chiedo se la visione del mondo del medico sia completamente cambiata e con essa la semantica della Medicina. Dall’analisi del testo evinco un ulteriore passo verso la spersonalizzazione della Medicina con la riduzione ulteriore di quella profondità ontologica che deve caratterizzare il rapporto fra medico e paziente e la progressiva scomparsa della magistrale distinzione fra malattia come classe nosologica e malattia come vicenda personale. Sono perfettamente conscio che la dimensione della cronicità rappresenta la vera sfida per la Medicina. È una sfida che va condotta sul piano organizzativo ma soprattutto sul piano culturale. La malattia è una evenienza che inerisce alla persona. Essa si compone sia di una realtà fisiopatologica che di una realtà antropologica e l’interazione fra queste due componenti si fa più intensa, con prevalenza della seconda, nel caso della cronicità. La gestione della cronicità non necessita di ulteriori diaframmi che si interpongano fra medico e paziente; se mai di un contatto più diretto con il paziente cronico la cui categorizzazione e omologazione secondo piani di cura precostituiti ne comporta la perdita di qualsiasi tratto individualizzante. La Medicina è, per definizione, una variabile dipendente multifattoriale. Non può essere fissata e forzata entro una sommaria definizione a priori. Da cultore di scienza sperimentale e come clinico so per certo che la oggettività delle cose è scavalcata dalla soggettività delle percezioni e propensioni umane. Ciò autorizza alla rinuncia di qualsiasi pretesa di programmi prefissati secondo logiche che non appartengono al mondo della Medicina. La sfida culturale impone anche la valorizzazione della dimensione culturale della attività clinica che deve sempre di più confrontarsi con l’aumento dei contenuti delle discipline biologiche di base. Nel caso della cronicità il medico deve ritrovare la propria dimensione intellettuale, fatta di spessore tecnico ma anche umanistico, nella consapevolezza di una visione d’insieme del malato. Al medico si dovrà chiedere più impegno nel cimentarsi in questa dimensione piuttosto che essere elemento di interazione con altre figure o enti entro una complessa filiera che si interpone con il paziente. Bisognerebbe prendere consapevolezza di «un fare medico» atto a dare risposte adeguate ai problemi che la medicina dovrà affrontare per uscire da una crisi della quale i medici odierni forse non sono del tutto consapevoli. So che si vuole introdurre un cambiamento. Ma, culturalmente, questo non mi appartiene. Rimango sempre ancorato alla concetto di una ricomposizione di «techne» e «sophia» come sapere compositivo del medico che ignora le dimensioni del consumo e del mercato.
// Fabrizio BoneraSpecialista di Medicina Interna Manerbio
Gentile Bonera, pubblichiamo la lettera che tocca temi molto importanti per tutti, a seguito anche della sua disponibilità a ridurre significativamente l’intervento che ci aveva recapitato in precedenza. Colgo tuttavia l’occasione per invitare tutti coloro che inviano lettere al Direttore, a contenere i loro scritti in dimensioni accettabili: per la grafica, per l’attenzione chiesta ai lettori terzi e soprattutto per lasciar spazio alle lettere altrui. Tre buoni motivi per usare meglio questo spazio a disposizione dei lettori e non di un singolo lettore, senza dover intervenire d’imperio per riportare ad un rigaggio sostenibile (per la pagina) le lettere o nei casi estremi a non pubblicarle (come peraltro esplicitamente indicato in calce a questa pagina). Per non farla lunga (provo a dare l’esempio), ricordiamoci del resto che, come ci avverte Shakespeare nell’Amleto, «la brevità è l’anima stessa della saggezza». (g.c.)
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato